Per gli egizi l’individuo era un sistema complesso formato da un corpo materiale e da cinque elementi spirituali che, per semplicità, spesso vengono definiti come “anime”. Per poter sopravvivere alla morte del corpo che li ospitava, questi elementi spirituali avevano bisogno di una nuova dimora che durasse per sempre. Grazie alla mummificazione, lo stesso corpo che li aveva ospitati in vita diveniva immutabile ed eterno. Per questo motivo, quando si parla di anime nell'antico Egitto, è doveroso parlare anche di mummie.
Per gli egizi il corpo era la dimora delle anime: se dopo la morte si fosse decomposto, le anime del defunto non sarebbero sopravvissute, e il loro proprietario avrebbe subito una seconda morte nell'aldilà, una definitiva e senza ritorno. Le anime – o elementi spirituali – che formavano l'individuo erano cinque: ib, ka, ba, ren e shut.
Ib
Gli antichi egizi definivano il corpo come khet, una parola che significa anche carne. Con la mummificazione il khet sarebbe divenuto sah, ovvero nobiltà o dignità. In altre parole, la carne mortale sarebbe divenuta l’immagine eterna e immutabile dell’individuo. Il processo di mummificazione prevedeva, tra le altre cose, che gli organi del defunto venissero rimossi. Tuttavia il cuore – ib –, per gli egizi sede dell'intelletto, della memoria e dei sentimenti, rimaneva nella cavità toracica.
Amuleto a forma di cuore – ib – proveniente dalla tomba di Psusennes I. XXI dinastia, 1039 - 991 a.C.
Foto: Werner Forman Archive / Cordon Press
Quest'organo veniva rappresentato con un vasetto dotato di due sporgenze naturali e probabilmente ispirato a quello di un bovino. Con "arresto di cuore" gli egizi volevano descrivere una grande emozione, mentre "cuore stanco" si usava per definire i moribondi. Per gli abitanti del Nilo quest'organo era una sorta di cervello, tanto che in uno dei miti sulla creazione del mondo si racconta di come il dio Ptah immagini il mondo nel suo cuore per poi crearlo pronunciando i nomi degli esseri e delle cose che prima aveva solo pensato.
Il cuore era pure sede della memoria e per questo motivo veniva sottoposto alla pesatura del cuore o, come la chiamavano i greci, psicostasia – pesatura dell'anima. Descritta nel capitolo 125 del Libro dei Morti, un testo religioso del Nuovo regno (1539-1069 a.C.), racconta di come il cuore del defunto venisse posto sul piatto di una bilancia. Sull'altro piatto si collocava una piuma di struzzo simbolo di Maat, la dea della verità. Se il peso di cuore e piuma si equilibravano, il defunto si era comportato rettamente e come "giusto di voce" poteva accedere all'aldilà dei beati. Ma se il cuore fosse stato più pesante della piuma, il defunto sarebbe stato condannato a scontare l'eternità tra atroci tormenti e sofferenze.
Ka e ba
Ma gli egizi non avevano una sola entità spirituale. Oltre al ib, il cuore, possedevano anche il ka, l'energia vitale e impersonale. Tramandata da genitori a figli, sopravviveva alla morte della persona e doveva essere nutrita per permettere al defunto di vivere nell'aldilà. Per questo motivo nelle cappelle funerarie, sopra una tavola per le offerte, venivano posti cibi e bevande per il sostentamento del Ka, che essendo immateriale si nutriva dell’energia degli alimenti, lasciando intatta la parte fisica, che veniva poi suddivisa tra i sacerdoti del ka e i lavoratori della necropoli. Il ka non usciva mai dalla tomba ed era rappresentato con il segno geroglifico di due braccia rivolte verso l’alto oppure con le fattezze del defunto con due braccia che spuntavano dalla sua testa. Uno splendido esempio è la statua del ka del faraone Hor (XIII dinastia, 1775-1630 a.C. circa) che si trova al Museo egizio del Cairo. Secondo un mito il dio ariete Khnum formava gli uomini sul tornio del vasaio insieme al loro ka.
Se il ka era la parte impersonale, il ba – rappresentato con il segno geroglifico di un volatile con testa umana – era l'energia personale del defunto, la personalità. Quando usciva dalla sua dimora – il corpo del defunto – il ba si nutriva delle offerte di cibo poste sulla tavola e poi volava fuori dalla tomba per recarsi a visitare le persone che amava e che era stato costretto a lasciare al momento della morte. Quest'anima è forse l'incarnazione del desiderio umano di vedere cosa accade dopo la propria morte, e allo stesso tempo l'attaccamento ai legami che gli umani tessono nel mondo dei vivi.
Statua del ka del faraone Hor (XIII dinastia, 1775-1630 a.C. circa)
Foto: Pubblico dominio
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Il nome, Ren, e l’ombra, Shut
Il quarto elemento spirituale che componeva l’individuo è ren, il nome, che racchiude l'essenza e l'identità dela persona. Non è un caso che tutti gli oggetti del corredo funerario – dai sarcofagi alle statue agli oggetti più minuti – portassero trascritto il nome del defunto: nominare una persona per gli egizi significava renderla viva. E infatti un antico proverbio recitava: «L’uomo di cui è pronunciato il nome, vive».
Anche il titolo del capitolo 25 del Libro dei Morti – Formula perché il defunto si ricordi il suo nome nel regno dei morti – conferma l'importanza del nome: per avere una propria individualità, il defunto doveva ricordare il proprio nome anche nell'aldilà. Questo concetto era così importante che tutte le divinità egizie possedevano un nome segreto che racchiudeva tutta la potenza divina. Non lo rivelavano mai, e solo Iside, una volta, riuscì a farsi rivelare da Ra il suo nome segreto...
Il ba del defunto Irynefer esce dal sepolcro. Nell'affresco della tomba tebana TT290 è raffigurato anche lo shut, l'ombra
Foto: Par Soutekh67 – Travail personnel, CC BY-SA 4.0, shorturl.at/hsFMT
Il quinto e ultimo elemento spirituale che componeva l’individuo è molto curioso: si tratta di è shut, l’ombra. Rappresentata come una sagoma nera, l’ombra è un elemento immateriale proiettato dal corpo degli uomini, che “segue” ovunque gli uomini, il cui corpo proietta un'ombra. Possedere un'ombra equivale dunque a esistere, e infatti l'ombra sparisce nel momento della morte per poi ricomparire nell'aldilà, quando si riunisce con il defunto a cui appartiene. In un paese caldo come l’Egitto l’ombra è pure sinonimo di protezione dai roventi raggi del sole. Non a caso il geroglifico shut contiene il disegno di un parasole.
L’akh, lo spirito luminoso
Questi cinque elementi spirituali erano posseduti da tutti gli egizi, che li ritrovavano dopo la morte. Ma esisteva anche un ultimo elemento, che gli egizi acquisivano solo nell'aldilà: l'akh, lo spirito luminoso. Rappresentato dal geroglifico di un ibis con un ciuffo, l’akh indica l’anima del defunto nell’aldilà reintegrata di tutte le sue funzioni. Secondo i testi religiosi l’akh poteva andare in cielo tra le stelle e partecipare così ai movimenti del cosmo, ma poteva anche tornare sulla terra e apparire davanti ai vivi in forma corporea – un'entità nota in altre culture e in altri tempi come fantasma – e comunicare con loro. Solo che nell'antico Egitto i fantasmi non fanno visita ai vivi a mezzanotte, ma a mezzogiorno! A quell'ora infatti il sole è allo zenit e i corpi non proiettano ombre: sono quindi privi dello shut, soli e indifesi, in balia degli spiriti.
Per essere certi di scongiurare la seconda morte – quella definitiva – nel caso in cui la mummia si fosse deteriorata, all'interno delle tombe veniva posta una statua che rappresentava il defunto con il suo ren – il nome – inciso sopra. Se la mummia si fosse decomposta, questa statua avrebbe preso vita e sostituito il corpo, diventando la nuova dimora delle anime del defunto. Vivere per sempre era il desiderio più profondo degli egizi, che escogitavano ogni stratagemma per vivere per sempre. Il saggio Hergedef, della IV dinastia (2575-2450 a.C. circa), scrive:
«Fa’ eccellente la tua dimora nella necropoli,
e fa’ perfetta la tua sede dell’Occidente ( il mondo dei morti).
Adotta questa regola perché la morte per noi è scoraggiante;
adotta questa regola perché per noi è la vita è esaltante.
La casa della morte serve alla vita».
Copia di un'illustrazione del Libro dei Morti. Il ba del defunto Ani s'innalza dalla sua mummia.
Foto: Pubblico dominio
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Per saperne di più
Spiritualità nell’antico Egitto, i concetti di Akh, Ba e Ka. Alessandro Bongiovanni, Mario Tosi, Edizioni Il Cerchio, Rimini, 2002