Invito a cena nella Roma imperiale

Dall’austerità delle cene repubblicane ai festini di epoca imperiale: un viaggio gastronomico nell’antica Roma

Immaginiamo di ricevere un invito a cena da un antico romano: siamo sulle rive del Tevere, al tramonto. Finito il lavoro, inizia il riposo serale e in tutte le case cominciano i preparativi per la cena. Potessimo scegliere il periodo? Senz’altro quello imperiale, quando l’austera semplicità a tavola cedette il posto al lusso.

Banchetto romano. Heinrich Leutemann. Sammlung Archiv für Kunst und Geschichte. Berlino

Banchetto romano. Heinrich Leutemann. Sammlung Archiv für Kunst und Geschichte. Berlino

Foto: Akg / Album

In origine i gusti erano semplici, basti pensare che il piatto principale era la famosa puls, una sorta di polenta composta da farina – solitamente di farro – ammollata in acqua, bollita e accompagnata da legumi, uova, verdure e, per chi poteva permetterselo, carne. Questo piatto era diffuso un po’ in tutta l’Italia antica, tanto che i greci diedero ai romani il soprannome di pultiphagi o pultiphagonides, ossia “mangia polenta”. Mentre gli aristocratici abbandonarono quasi del tutto la puls sostituendola con il pane, Giovenale ricorda come nelle case della povera gente ancora bollissero le grandi pentole di terracotta fumanti di polenta.

Che il banchetto abbia inizio!

Abbandonata definitivamente la semplicità dei tempi antichi, in epoca imperiale il banchetto divenne status symbol dell’aristocrazia. Il consumo di carne aumentò vertiginosamente: soprattutto suini che, secondo Plinio, avevano la carne più buona (l’unica ad avere cinquanta sapori diversi), caprini e, più raramente, ovini (usati invece per il latte e la lana). Molto amati erano anche i volatili da cortile: anatre, piccioni e oche, ingrassate anche per ottenere il ficatum (il nostro foie gras). La gallina, invece, fu allevata a lungo solo per le uova. Poco utilizzata fu da sempre la carne dei bovini poiché questi animali erano fondamentali per il lavoro dei campi, tanto che fino alla fine del IV secolo c’era l’esilio se non addirittura la pena di morte per chi ne uccideva uno. Completava il quadro la selvaggina, tra cui la lepre, il capriolo e il cinghiale. La carne era spesso dura e nodosa, quindi veniva bollita nell’acqua o nel latte per una, due e anche tre volte. In questo modo perdeva tutto il sapore e, per renderla più appetitosa, si aggiungevano salse, condimenti e spezie. Il pesce entrò tardi nell’alimentazione, ma in epoca imperiale il suo consumo si diffuse velocemente: anguille, cefali, orate, spigole, crostacei, molluschi (carissimi!) e murene.

Natura morta. Pompei, I secolo a.C. Museo archeologico nazionale. Napoli

Natura morta. Pompei, I secolo a.C. Museo archeologico nazionale. Napoli

Foto: Prisma / Album

Con l’espansione militare di Roma nel Mediterraneo, arrivarono sulle rive del Tevere cibi e sapori nuovi. Tra questi molti frutti: le ciliegie, secondo la tradizione introdotte nel 65 a.C. da Lucullo, che le aveva apprezzate mentre guerreggiava sul mar Nero contro Mitridate; le pesche e i limoni (originari rispettivamente di Cina e Pakistan) giunti a Roma dalla Persia; le albicocche, originarie della Cina; il melograno, diffuso in tutto l’Oriente, e i datteri, provenienti dall’Africa. Questi frutti esotici erano molto cari, tanto che Marziale si lamenta di un anfitrione che non offriva frutta ai suoi commensali per risparmiare! Nelle riserve di caccia degli aristocratici, poi, iniziarono a essere allevati animali esotici come lo struzzo, originario dell’Africa, e il fagiano, proveniente dalle zone vicine al mar Nero.

In epoca imperiale si potevano anche ingaggiare cuochi professionisti. I più ricercati erano senza dubbio quelli orientali e greci, che non solo dovevano cucinare piatti esotici, ma anche “creare” vere e proprie opere d’arte poiché il cibo doveva essere presentato in tavola scenograficamente. Siamo ben lontani dall’austerità e dalla semplicità dei primi tempi, quando anche il padrone di casa non disdegnava di mettersi ai fornelli. Il De re coquinaria, manuale di gastronomia attribuito ad Apicio, un buongustaio del I secolo d.C., è senza dubbio la più celebre opera di gastronomia del mondo antico e illustra bene quale fosse la cucina del periodo imperiale. Dalle ricette di quest’opera emergono la commistione in uno stesso piatto di carne e di pesce, l’uso e perfino l’abuso dei condimenti, tanto da nascondere il sapore del cibo e, soprattutto, la mescolanza di dolce e salato, che dava ai piatti un gusto agrodolce tipico della tradizione orientale. Nascondere il sapore originario del cibo a noi pare insensato, ma non lo era per gli antichi romani. Basti pensare che, in un suo epigramma, Marziale elogia la bravura di un cuoco, capace di imitare tutti i piatti adoperando solo la zucca! Lo stesso Apicio dà ricette con le aringhe… senza aringhe!

Invito a cena con sorpresa

Stupire gli ospiti era l’imperativo assoluto, come si evince dal Satyricon di Petronio, opera di fantasia ma sicuramente ispirata a mode reali dell’epoca. Vi è descritto il pantagruelico banchetto di Trimalcione, un ex schiavo arricchito; in esso viene servito un cinghiale cucinato intero e circondato da piccoli maialini in pasta di mandorle e con due cestini colmi di datteri appesi alle zanne. Non appena il cuoco pianta il coltello nel fianco dell’animale, ne escono tordi vivi e svolazzanti. Libertà durata poco, visto che i poveretti vengono prontamente catturati, cotti e serviti! Letteratura a parte, un piatto molto famoso e ricercato era il porcus troianus: un maiale ripieno di salsicce con salse aromatiche e verdure il cui nome ricorda quello del leggendario cavallo di Troia “ri”pieno di soldati achei. Lucullo, contemporaneo di Cicerone, si fece costruire un triclinio dentro una voliera. In questo modo i suoi ospiti, mentre gustavano la carne di pavone o di fagiano, potevano anche vedere l’animale vivo e svolazzante. Piccolo inconveniente: l’odore di pollaio, che rendeva impossibile la permanenza al suo interno. Più fortuna ebbero i triclini ad acqua. Plinio il Giovane ha lasciato una descrizione del suo triclinio: a una delle estremità di una piscina tondeggiante i commensali erano sdraiati su triclini in muratura. Dall’altra parte, i servitori spingevano sull’acqua vassoi lignei stracolmi di bontà da gustare in modo tale che, galleggiando, queste raggiungessero i commensali.

Romani al mercato. Museo gregoriano profano. Città del Vaticano

Romani al mercato. Museo gregoriano profano. Città del Vaticano

Foto: Scala, Firenze

Romani al mercato. Museo gregoriano profano. Città del Vaticano

 

 

L’utilizzo di neve per raffreddare le vivande divenne una moda tra i ricchi, che pagavano un bicchiere d’acqua refrigerata a più caro prezzo di una coppa di buon vino. Con la neve si facevano sorbetti a base di latte, uova e miele: un vero e proprio gelato ante litteram! Allora come oggi i medici erano contrari alle bevande ghiacciate, anche perché la neve arrivava sporca nelle coppe a causa dei vari passaggi cui era sottoposta: raccolta sui picchi innevati, trasportata su carri, imballata nella paglia e, infine, immagazzinata. Plinio racconta che Nerone fu il primo a utilizzare neve per refrigerare l’acqua, mentre Svetonio riferisce che abbia introdotto anche la moda di fare bagni nella neve per arginare la calura estiva.

Il gusto cambia nel corso del tempo. Ecco allora alcuni cibi che furono molto amati dagli aristocratici. La carne di pavone, ad esempio, era considerata pregiatissima ed era molto costosa; una volta cotto, l’animale veniva presentato in tavola intero e ornato con le sue bellissime piume. Dall’editto di Diocleziano sappiamo che il pavone femmina, con piume più modeste, costava un terzo in meno del maschio. Una vera e propria leccornia sembra essere stata la lingua di fenicottero, così come i talloni del cammello – di cui Apicio dà la ricetta. Per non parlare del cervello di struzzo, molto amato da Eliogabalo, o della carne di cucciolo di cane. Molti di questi cibi a noi fanno storcere il naso, ma come ci hanno insegnato gli antichi romani…de gustibus non est disputandum.

Frutta esotica. Mosaico del III secolo d.C. El Djem, Tunisia

Frutta esotica. Mosaico del III secolo d.C. El Djem, Tunisia

Foto: Akg / Album

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