Il massacro di My Lai

Il 16 marzo 1968, a quasi otto anni dall’intervento americano nella guerra del Vietnam, nel villaggio di My Lai (circa 800 km a nord di Saigon) si consumò un eccidio di civili inermi. In poche ore centinaia di anziani, donne e bambini vennero fucilati da una compagnia di soldati americani. L’episodio venne insabbiato per mesi dagli alti comandi dell’esercito statunitense, per poi venire alla luce grazie all’opera di un soldato e di un giornalista

La guerra del Vietnam (1955-1975) fu un conflitto che vide l’esercito del Vietnam del Nord, guidato dalla dittatura comunista di Ho Chi Minh appoggiata da Unione Sovietica e Cina, scontrarsi con le truppe del Vietnam del Sud, dov'era presente un regime anti comunista con a capo Ngo Dinh Diem, sostenuto dagli Stati Uniti.

Il contesto nel 1968

Nel 1968 il presidente statunitense Lyndon Johnson decise d'incrementare l’invio di truppe in Vietnam. Sebbene inizialmente la sua mossa sembrò avvantaggiare gli Stati Uniti, presto apparve chiaro che la forza dell’esercito nord vietnamita era stata sottovalutata. Nella notte tra il 30 e il 31 gennaio le forze di Ho Chi Minh diedero inizio a quella che è passata alla storia come Offensiva del Tet: circa 70mila soldati nord vietnamiti occuparono gran parte dei villaggi e delle regioni più popolate del Vietnam del Sud, arrivando a conquistare la capitale Saigon. L’inaspettata invasione ebbe un effetto devastante sul morale delle truppe americane, che reagirono con un’agguerrita contro offensiva.

Nelle settimane successive i combattimenti si fecero particolarmente violenti e sanguinosi. Le tattiche di guerriglia dei Viet Cong – gruppi armati di resistenza nord vietnamiti – consistevano nel massiccio utilizzo di trappole e mine antiuomo e in continue imboscate, e devastarono l’esercito statunitense costringendolo a cambiare metodo di combattimento. Tra la fine di gennaio e la metà di marzo gli americani organizzarono decine di operazioni dette Search and Destroy (Cerca e distruggi) in diversi villaggi vietnamiti: incursioni via elicottero mirate a obiettivi strategici, volte a uccidere quanti più soldati nord vietnamiti possibili limitando il numero di truppe americane coinvolte.

I carri armati statunitensi dirigono il lanciafiamme sul sottobosco dove si crede che si nascondano i cecchini Viet Cong. 15 luglio 1965

I carri armati statunitensi dirigono il lanciafiamme sul sottobosco dove si crede che si nascondano i cecchini Viet Cong. 15 luglio 1965

Foto: Topfoto.co.uk / Cordon Press

Il massacro di My Lai

Il 16 marzo 1968 la Compagnia Charlie della 23° Divisione di Fanteria fece incursione nel piccolo villaggio di My Lai, a circa 850 chilometri da Saigon. In base alle informazioni ricevute dal capitano della Compagnia, Ernest Medina, e dal suo secondo, il tenente William Calley, nel centro abitato si rifugiava un agguerrito plotone di Viet Cong, e sarebbe stata un'occasione perfetta per vendicare i compagni caduti nei giorni precedenti. Intorno alle sette di quella mattina di marzo, i militari statunitensi diedero inizio all'operazione: si addentrarono nel villaggio determinati a stanare i nemici, ma incontrarono soltanto anziani, bambini e donne intente a preparare la colazione. Non c'era alcun segno della presenza di Viet Cong e dopo un'attenta perquisizione vennero ritrovati solo tre vecchi fucili e nessun uomo in età da combattimento. Secondo il tenente Calley, però, quelle tre armi erano una prova sufficiente, e ordinò ai suoi uomini d'iniziare a fare fuoco sui civili esclamando «sbarazzatevene».

Se alcuni soldati si rifiutarono di eseguire l'ordine, altri diedero inizio alla mattanza: raggrupparono i civili – anziani, donne e bambini – davanti a dei fossati e li fucilarono senza pietà. A diverse giovani donne venne riservata una sorte ancora peggiore: furono uccise dopo essere state a lungo violentate. Quando, intorno alle unidici, Medina ordinò ai suoi uomini di fermarsi per pranzare, più di cinquecento civili innocenti erano stati torturati e uccisi. Il capitano inviò dei messaggi radio ai suoi superiori, dicendo che la missione era stata un successo, e mentì spudoratamente affermando che erano stati uccisi cento Viet Cong, mentre la compagnia non aveva subito nessuna perdita.

Un uomo di età avanzata a My Lay il giorno del massacro

Un uomo di età avanzata a My Lay il giorno del massacro

Foto: Pubblico dominio

Qualche anno più tardi il soldato semplice Dennis Comptey, che partecipò al massacro, avrebbe affermato: «molte donne si gettarono sopra i bambini per proteggerli; i bambini erano vivi all’inizio, poi quelli che erano abbastanza grandi per camminare si alzarono e Calley iniziò a sparagli». Il sergente Michael Bernhardt, giunto nel villaggio quando le violenze dei soldati erano già iniziate, ricordò: «arrivai e vidi questi ragazzi fare delle cose strane: davano fuoco alle capanne e aspettavano che le persone uscissero per poi sparagli [...] Sparavano a donne e bambini come a tutti gli altri; non avevamo incontrato alcuna resistenza e io avevo visto solamente tre armi requisite. Non abbiamo perso nessun soldato. Quel villaggio era come tutti gli altri villaggi vietnamiti: c’erano solo anziani, donne e bambini. Non ricordo di aver visto alcun uomo in età da combattimento in tutto il villaggio, vivo o morto».

La fine del massacro

La strage fu fermata solo grazie all’arrivo del sottufficiale Hugh Thompson. Mentre il massacro infuriava, Thompson e la sua compagnia stavano sorvolando il villaggio di My Lai con un elicottero da ricognizione. La vista di diversi corpi nei pressi del villaggio e del fumo generato dagli incendi delle capanne insospettì Thompson, che anni dopo dichiarerà: «Abbiamo continuato a volare avanti e indietro… e non ci è voluto molto tempo prima che iniziassimo a vedere un gran numero di corpi ovunque [...] Si trattava di neonati, di bambini di due, tre, quattro, cinque anni, di donne, di uomini molto anziani».

Atterrato nei pressi di un fossato che già accoglieva i corpi di diversi civili giustiziati, Thompson chiese ad alcuni soldati della Compagnia Charlie che cosa stesse succedendo e, quando gli fu risposto che stavano semplicemente eseguendo gli ordini dei loro superiori, il sottufficiale intimò ai soldati di fermare quella mattanza di civili, o sarebbe stato costretto a ordinare alla sua squadra di aprire il fuoco contro di loro. La minaccia sortì effetto e, mentre i pochi superstiti vennero prelevati dalla sua squadra e allontanati via elicottero, Thompson informò via radio il suo superiore, il colonnello Frank Barker, chiedendo l’invio di aiuti. Appresi i fatti, Barker ordinò a Medina d'interrompere immediatamente l’operazione.

Delle donne e dei bambini attimi prima di essere giustiziati a My Lai. 16 marzo 1968

Delle donne e dei bambini attimi prima di essere giustiziati a My Lai. 16 marzo 1968

Foto: Pubblico dominio

Il rapporto di Thompson e la denuncia di Tom Glen

Appena rientrato alla base Thompson stilò un rapporto dettagliato di quanto successo a My Lai, descrivendo le violenze efferate di cui era stato testimonie. Ma quando il suo resoconto giunse nelle mani del colonnello capo dell’Undicesima divisione di Fanteria, Oran Kenneth Henderson, questi si limitò a scrivere nel suo rapporto ufficiale che "solo" venti civili erano stati involontariamente uccisi, di fatto insabbiando il massacro. Dal canto suo Thompson venne bollato come un traditore e iniziò a ricevere minacce di morte anonime. Il suo rapporto non arrivò mai negli Stati Uniti e per più di un anno nessuno credette alla sua versione.

Qualche mese dopo il soldato semplice Tom Glen, che aveva partecipato alla strage, denunciò l’esercito statunitense per le quotidiane violenze sui civili e sui prigionieri di guerra commesse durante il conflitto. Per fare luce sulla faccenda vennero istituite due commissioni d'indagine, che però non ebbero alcun effetto: Colin Powell, futuro segretario di stato durante la presidenza di George W. Bush e allora maggiore dell’esercito, fu incaricato d'indagare sulle accuse mosse da Glen, ma liquidò velocemente il tutto dichiarando: «A diretta refutazione di quanto ritratto, c’è il fatto che le relazioni fra soldati americani e popolazione vietnamita sono eccellenti».

Il sottufficiale Hugh Thompson, che ordinò di fermare il massacro di My Lai, in una fotografia scattata nel 1966.

Il sottufficiale Hugh Thompson, che ordinò di fermare il massacro di My Lai, in una fotografia scattata nel 1966.

Foto: Pubblico dominio

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Le indagini e il processo

La strage di My Lai tornò alla luce quasi per caso. Nei mesi successivi alla strage il soldato semplice Ronald Ridenhour si stava addestrando con alcuni soldati della Compagnia Charlie e li udì casualmente parlare di quanto accaduto a My Lai. Insospettito, iniziò a fare domande ad altri uomini della Compagnia e, preso atto di quanto accaduto, scrisse una lettera al presidente americano, Richard Nixon, e a diversi membri del Congresso per denunciare l’eccidio. La sua denuncia, però, cadde nel vuoto. Così, quando nel novembre del 1969 incontrò il giornalista indipendente Seymour Hersh, il soldato gli raccontò cosa aveva scoperto sulla strage di My Lai.

Hersh non perse tempo e in pochi giorni imbastì un'inchiesta che fu inviata a diversi giornali statunitensi e infine, dopo il diniego delle testate più importanti, trovò spazio nelle pagine dell'Associated Press, scandalizzando l'opinione pubblica. Nel 1970 Hersh venne omaggiato per il suo lavoro con il premio Pulitzer, mentre i presunti responsabili della strage vennero interrogati. Solo quattordici soldati della compagnia, compresi Medina e Calley, furono processati. Il tribunale li assolse tutti tranne Calley, che il 31 marzo 1971 fu condannato all’ergastolo per l’omicidio premeditato di ventidue civili e per aver orchestrato la strage.

Il giorno seguente Richard Nixon tramutò la pena in soli tre anni di arresti domiciliari. Solamente nel 2009, più di quarant’anni dopo il massacro, Calley si è scusato pubblicamente per quanto fatto, dichiarando: «Non ci sono giorni in cui non senta rimorso per quanto accaduto quel giorno a My Lai. Provo rimorso per i vietnamiti che sono stati uccisi, per le loro famiglie, per gli americani coinvolti ed i loro cari. Sono veramente dispiaciuto».

Il luogotenente William Calley si presenta davanti alla corte marziale per I crimini commessi a My Lai accompagnato dai suoi difensori. Alla sua sinistra il maggiore Kenneth Raby, a destra Richard Kay19 novembre 1970.

Il luogotenente William Calley si presenta davanti alla corte marziale per I crimini commessi a My Lai accompagnato dai suoi difensori. Alla sua sinistra il maggiore Kenneth Raby, a destra Richard Kay19 novembre 1970.

Foto: Cordon Press

I tentativi del governo di insabbiare il massacro

Diverse ricerche hanno confermato il tentativo del presidente Nixon e della sua amministrazione di sabotare i processi istituiti nei confronti dei soldati della Compagnia Charlie: l’obiettivo era che nessuno degli imputati venisse condannato per crimini di guerra, così da non rovinare la reputazione dell’esercito statunitense in un momento molto delicato del conflitto. Gli appunti presi dal capo dell’entourage del presidente, H.R. Haldeman, durante le riunioni con Nixon sono una prova inconfutabile del tentativo del governo d'insabbiare i crimini commessi a My Lai; la lettura di questi documenti permette inoltre di comprendere la strategia messa in piedi da Nixon e dai suoi uomini per screditare le testimonianze di Thompson e di tutti coloro che avevano assistito al massacro. Infatti in una delle note di Haldeman si legge: «Nixon ha approvato l’uso di trucchi sporchi, ma non a livello troppo elevato. Di conseguenza è necessario screditare il testimone [Thompson]».

Nixon raggruppò i suoi uomini migliori e creò la “My Lai Task Force”, di cui facevano parte Pat Buchanan (assistente speciale del presidente), Henry Kissinger (consigliere per la sicurezza nazionale), Herb Klein (direttore delle comunicazioni del Ramo Esecutivo) e Franklyn Nofziger (membro influente del Congresso). Il presidente istituì poi una speciale sottocommissione d’indagine con lo scopo di condurre un’inchiesta indipendente su My Lai volta a sabotare le prove del massacro. Per circa quattro mesi la sottocommissione si riunì in sedute segrete, minando di fatto il sistema di giustizia militare statunitense. Il fatto che quasi tutti gli imputati siano stati assolti è apparentemente inspiegabile; si può comprendere invece tenendo conto della pressione esercitata dalla My Lai Task Force e dalla sottocommissione istituita da Nixon sul tribunale di giustizia militare che avrebbe dovuto processare i colpevoli.

Il soldato semplice Dustin da fuoco a un'abitazione a My Lai.

Il soldato semplice Dustin da fuoco a un'abitazione a My Lai.

Foto: Pubblico dominio

L’eco della strage

La pubblicazione di Hersh e le fotografie del massacro scattate da un fotografo ufficiale dell’esercito, Ronald L. Haeberle e pubblicate sul Washington Post pochi giorni dopo l’uscita dell’inchiesta, fecero scalpore negli Stati Uniti. Da quel momento in poi infatti le contestazioni alla guerra divennero più pressanti e i soldati americani non vennero più visti come semplici vittime del conflitto, ma come carnefici (soprannominati “baby killers”).

La guerra del Vietnam sarebbe durata ancora diversi anni. Quello di My Lai non fu l’unico eccidio di civili avvenuto durante il conflitto, ma fu certamente il più noto. Oggi in quel luogo sorge il Monumento alla memoria della strage: sono riportati i nomi dei 504 civili uccisi, affinché non vengano mai dimenticati. Di questi, 182 erano donne (17 delle quali incinte), 176 bambini (52 dei quali neonati) e 60 anziani.

Nel 1998 venne infine riconosciuto ufficialmente a Thompson e ai suoi soldati il merito di aver bloccato la carneficina, salvando la vita ad almeno 11 civili: venne loro assegnata la Soldier’s Medal, l’onorificenza più alta dell’esercito americano concessa ai soldati che hanno rischiato la vita in circostanze che non contemplano un conflitto armato contro il nemico.

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