Il re d’Egitto era l’unico intermediario tra gli uomini e le divinità e aveva quindi dei doveri fondamentali verso il suo popolo: senza di lui tutto il creato sarebbe piombato nel caos. La sua responsabilità era enorme, e in cambio esigeva dal suo popolo un’obbedienza assoluta.
Akhenaton e Nefertiti, seduti sul trono e con le insegne del potere, giocano con tre delle loro figlie mentre Aton, il disco solare, li bagna con i suoi raggi benefici. Museo egizio, Il Cairo
Foto: Erich Lessing / Album
La regalità in un nome
Dalla fine del periodo predinastico (nel 3170 a.C. circa) i nomi dei sovrani iniziarono a essere scritti all'interno di un disegno particolare chiamato serekh, che rappresentava la facciata del palazzo reale. Il serekh conteneva al suo interno il nome del re scritto in geroglifico e sulla sua sommità era rappresentato il dio falco Horo, simbolo della regalità e protettore della corona. Simbolicamente questo particolare disegno si può dunque leggere così: il re, personificato dal suo nome in geroglifico, è all'interno del palazzo reale e il falco Horo, simbolo della regalità, lo protegge dall’alto.
Stele del faraone Djet ritrovata ad Abido. Il geroglifico con il nome del sovrano è inserito in un 'serekh' sormontato da Horo
Foto: Cordon Press
Questa lettura rimanda alle concezioni più arcaiche della regalità, che prevedevano l'isolamento del sovrano nel suo palazzo per proteggerlo dai mali del mondo e da tutti i suoi pericoli. Il sovrano quindi veniva identificato con il palazzo in cui viveva. Un'eco di quest'antica concezione della regalità sembra trovarsi nell’origine della parola "faraone", che deriva dall'egizio per-aa (pronuncia "parao") che significa "grande casa". Passando dall'egizio al greco, questa parola divenne pharao dando così origine alla parola "faraone".
Nel corso del tempo a questo primo nome, il "nome di Horo" scritto all'interno del serekh, se ne aggiunsero altri quattro, arrivando così a cinque nomi reali. Gli ultimi due, quello di intronizzazione e quello di nascita, venivano scritti all'interno del cartiglio, un'ellisse formata da una corda annodata che rappresentava il cosmo ordinato su cui il re avrebbe saggiamente governato.
Il re è morto, viva il re!
Gli egizi consideravano il faraone un uomo che, come tutti, un giorno sarebbe morto, ma che a differenza dei comuni mortali aveva dentro di sé il potere divino della regalità: il Ka reale. Il faraone riceveva il Ka reale dal re precedente e, a sua volta, l’avrebbe trasmesso al suo successore. Idealmente il re non era altro che un anello di una catena ininterrotta di sovrani che l'avevano preceduto fin dagli inizi dei tempi e che l’avrebbero seguito. La sua carica divina era antica quanto il mondo.
La dualità della natura del faraone, umana e divina, è ben espressa nei termini usati per indicarlo: nesut e hem. Il primo termine è usualmente tradotto con “re” ed è utilizzato per indicare il faraone in quanto uomo che emana decreti, elegge funzionari e rappresenta l’Egitto davanti agli dei. L'appellativo hem viene comunemente tradotto con “maestà”, ma in realtà significa “ incarnazione” ed è quindi il titolo perfetto per indicare l’individuo in cui ha temporaneamente preso sede il potere divino della regalità. Si pensi che talvolta anche il re, per riferirsi a sé stesso, utilizzava il termine “la mia incarnazione”.
Come scrive Alessia Amenta, «il re, o meglio, la carica che egli riveste è dunque antica quanto il mondo creato ed è premessa indispensabile allo sviluppo della cultura egizia: lo Stato (cioè il cosmo) si identifica con il sovrano e non può esistere senza di lui. La sua morte vede dunque precipitare il mondo nel caos, mentre la salita al trono di un nuovo re ripete magicamente la creazione del cosmo».
Quando il faraone moriva l’ordine del mondo era sconvolto. Per questo, dopo aver espletato i rituali della mummificazione, del funerale e della sepoltura, che avrebbero permesso al sovrano defunto di divenire un vero e proprio dio, la priorità era quella d'incoronare il successore. Al nuovo sovrano, seduto sul trono, veniva posta sul capo la doppia corona (che rappresentava il nord e il sud dell’Egitto) e in questo modo avveniva la trasfigurazione del nuovo re in un dio. L’ordine – rappresentato dalla dea Maat – era nuovamente stabilito.
Quando un re saliva al trono era come se il mondo iniziasse di nuovo. Questo spiega il motivo della mancanza di una cronologia assoluta in Egitto, dove gli anni venivano conteggiati dall’inizio del regno di un sovrano fino alla sua morte, per poi azzerarsi e ripartire dall’inizio con il suo successore.
I doveri del faraone
Compito fondamentale del sovrano era quello di realizzare la Maat – l'ordine universale – e di distruggere Isefet, il caos. Il re era “colui che detiene la Maat” e doveva quindi mantenere l'ordine e l'armonia nel popolo e tra uomini e dei. La divinità, rappresentata in forma di donna con una piuma di struzzo sul capo, era la personificazione della verità, dell'ordine, della giustizia, in opposizione a tutto ciò che era ingiusto e malvagio: era insomma l’ossatura morale del creato. Se questa fosse scomparsa dall'Egitto tutto sarebbe piombato nel caos, come nel periodo precedente alla creazione. Per adempiere al suo dovere di mantenere la Maat il faraone doveva svolgere i riti e fare le offerte agli dei, come era dettato dalla tradizione millenaria del suo Paese.
La dea egizia Maat con indosso la piuma della verità
Foto: CM Dixon / Heritage Images / Cordon Press
Oltre a espletare il suo dovere verso l’“alto”, nel culto degli dei, il faraone doveva esercitarlo anche verso il “basso”, prendendosi cura dei suoi sudditi, e verso l’esterno, combattendo i nemici dell’Egitto. Queste tre direttrici che identificano il ruolo del sovrano si trovano elencate nel testo L’insegnamento per Merikara della X dinastia (2125-1975 a.C.) dove il re Kheti II dà una serie di preziosi consigli al figlio che gli deve succedere al trono. Un primo brano parla dei doveri del re verso l’alto, verso gli dei:
Agisci in favore di dio,
sicché egli faccia lo stesso per te,
mediante grandi offerte che ornano le tavole e mediante iscrizioni
Il rilievo illustra un faraone che fa un'offerta a Sobek dalla testa di coccodrillo e a Hathor
Foto: Cordon Press
Il re Kheti raccomanda poi al figlio di aver cura e di provvedere ai bisogni del suo popolo:
Cura il benessere del tuo popolo […]
sii equo nella tua casa […]
Compi la giustizia […]
Consola chi piange,
non opprimere la vedova,
non scacciare un uomo dalla proprietà di suo padre […]
guardati dal punire ingiustamente.
Non giustiziare se non ti è [davvero] utile
Infine spende alcune parole anche per la difesa contro i nemici:
Proteggi i tuoi confini;
fai leva per le tue fortificazioni:
sono utili le truppe per il loro signore […]
Porta le tue statue nei Paesi lontani, i cui elenchi non sono compilati:
sarà miserabile e rovinata la proprietà del nemico,
e non sarà tranquillo [neppure] il nemico interno dell’Egitto
Il testo si chiude con la sentenza: «Ecco, ti ho detto il meglio del mio intimo, e tu fanne una fondazione davanti ai tuoi occhi!». Solo seguendo questi consigli il faraone avrebbe mantenuto la Maat su tutto l’Egitto.
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L’abbattimento dei nemici
Secondo gli egizi il mondo viveva in eterna tensione tra l'ordine perfetto stabilito nel momento della creazione – Maat – e il caos, Isefet, che da sempre lo minaccia. Un'immagine rituale che si ripete continuamente nell’iconografia faraonica è quella del sovrano che abbatte i nemici con una mazza tenendoli per i capelli. Tutti i faraoni si sono fatti ritrarre in questo modo, ma l’immagine più famosa è certamente quella rappresentata nella tavolozza del re Narmer, fondatore della I dinastia.
La tavoletta di Narmer, in cui l'imperatore afferra per i capelli il nemico
Foto: Cordon Press
L’abbattimento rituale dei nemici è un'immagine simbolica e non rappresenta un'esecuzione concreta, ma semplicemente il faraone che sconfigge il caos, rappresentato dai nemici tradizionali dell’Egitto: nubiani, libici o asiatici. La vittoria dell’ordine sul caos è certamente compito del faraone, ma viene assicurata anche dall’obbedienza assoluta degli uomini al sovrano che, in quanto rappresentante del divino sulla terra, è per i suoi sudditi l’unica garanzia di vita possibile.
In un testo chiamato Le istruzioni lealiste, risalente alla XII dinastia (1938-1755 a.C. circa) e scritto da un governatore per il figlio, si legge: «Il re è l’essenza della vita, la sua bocca è l’abbondanza; esisterà colui che egli crea; egli è l’erede del dio, il difensore di chi l’ha creato: essi [gli dei] colpiscono per lui i suoi nemici». E ancora: «Combattete per il suo nome, rispettate il giuramento fatto per lui. Astenetevi dall’insorgere contro di lui; chi il re ama sarà un imakh [un defunto beato], ma per chi è ostile a Sua Maestà non ci sarà tomba, e il suo cadavere sarà gettato nell’acqua [come quello di un criminale]».
Insomma, il faraone avrebbe curato il benessere del popolo, lo avrebbe difeso dai nemici esterni e avrebbe curato le relazioni tra gli uomini e gli dei, ma in cambio esigeva dai suoi sudditi un’obbedienza assoluta.
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