I trionfi di Cesare

Ansioso di superare il suo nemico Pompeo e diventare il generale romano di maggior successo, Giulio Cesare celebrò cinque sontuosi trionfi tra il 46 e il 45 a.C. per commemorare le sue vittorie militari

Il 28 settembre del 61 a.C. una gigantografia del mondo varcava la porta Triumphalis. I romani, che attendevano trepidanti lo spettacolo, sapevano bene cosa significava: il generale trionfatore che stava per oltrepassare a sua volta la porta, Gneo Pompeo Magno, era giovane, ma già al suo terzo trionfo e, dopo la Spagna e l’Africa, ne celebrava uno sull’Asia; agli occhi dei contemporanei, era come se avesse conquistato tutti e tre i continenti conosciuti, ovvero il mondo intero. E il suo nuovo trionfo – la cerimonia in cui i generali vittoriosi sfilavano per le vie della città esibendo i bottini e i prigionieri catturati nelle proprie campagne – era il più fastoso della storia dell’Urbe. Pompeo si vantava infatti di aver conquistato 1538 città e di aver soggiogato 12.178 persone. Aveva inoltre fondato 39 città dando loro il suo nome e seguito le orme di Alessandro Magno fino al mare d’Azov. E del condottiero macedone, adesso, il trionfatore indossava il mantello, mentre procedeva su un cocchio tempestato di pietre preziose.

Il tratto della via Sacra  che passa accanto al tempio di Vespasiano e Tito, al tempio di Saturno e alla casa delle Vestali

Il tratto della via Sacra che passa accanto al tempio di Vespasiano e Tito, al tempio di Saturno e alla casa delle Vestali

Foto: Songquan Deng / Getty Images

Erano cifre, le sue, che andavano ben oltre i requisiti minimi che un generale doveva rispettare per richiedere al senato un trionfo. Innanzitutto, era una questione di morti: perché si potesse inoltrare la richiesta, la guerra doveva aver fatto almeno cinquemila vittime tra i nemici. Ed era la sola occasione in cui un esercito era autorizzato a entrare in città. Le regole della celebrazione, codificate da secoli, prevedevano che il trionfatore entrasse dalla porta Triumphalis in Campo Marzio e procedesse fino al Campidoglio, su un cocchio trainato da quattro cavalli, indossando una corona d’alloro, una tunica di porpora bordata d’oro e una toga tempestata di stelle dorate; nella mano destra doveva tenere uno scettro d’avorio, mentre il suo viso era dipinto di rosso minio quale rappresentazione di Giove Ottimo Massimo. E, a scanso di equivoci, uno schiavo accanto a lui, incaricato di tenergli una corona d’oro sulla testa, aveva anche il compito di ricordargli che non era un dio ma solo un uomo, sebbene in quel momento impersonasse il padre degli dei.

Il corteo si apriva al suono delle trombe, che introduceva i cartelloni con le raffigurazioni delle imprese del trionfatore e poi il bottino, le spoglie di guerra e i prigionieri, cui seguivano magistrati e senatori, in processione davanti al vincitore. Alle spalle della quadriga, infine, procedevano i soldati, autorizzati, per l’occasione, a fare battute irriverenti nei confronti del loro comandante. La cerimonia si chiudeva con il sacrificio rituale del condottiero di fronte al tempio di Giove Capitolino, utilizzando come vittime i tori con le corna dorate che avevano sfilato nel corteo. Seguiva solitamente qualche giorno di feste, banchetti, giochi nel circo. In epoca imperiale, Traiano si sarebbe lasciato prendere decisamente la mano, concedendo a Roma 123 giorni di festa durante i quali avrebbero combattuto 10mila gladiatori e sarebbero stati uccisi 11mila animali.

Superare Pompeo a ogni costo

Ma dopo il fastoso trionfo celebrato da Pompeo nel 61 a.C., cosa avrebbe dovuto fare colui che lo aveva sconfitto in battaglia a Farsalo per far dimenticare le cifre, il bottino e lo sfarzo ostentati dal conquistatore dell’Oriente? Fu la domanda che dovette porsi Giulio Cesare nel 46 a.C., all’indomani della vittoria sugli ultimi pompeiani che avevano scelto l’Africa come loro estrema roccaforte. Anche lui, in un certo senso, aveva trionfato su tre continenti; aveva combattuto per quasi un decennio in Gallia, stroncando ad Alesia la grande ribellione condotta da Vercingetorige e sgominando gli ultimi irriducibili a Uxellodunum, dove aveva fatto tagliare la mano destra a tutti i difensori. Si era trovato invischiato nelle lotte di potere tra fratelli in Egitto, dove aveva preso le parti di Cleopatra, sconfiggendo in condizioni pur critiche e con pochi mezzi i suoi avversari e rendendo saldo il trono della regina. Infine, aveva liquidato in un batter d’occhio la pratica relativa a Farnace, re del Ponto, umiliandolo in una battaglia a Zela, dopo che suo padre Mitridate VI Eupatore aveva tenuto in scacco i romani per decenni.

Statua di Giulio Cesare di Nicolas Coustou. XVIII secolo

Statua di Giulio Cesare di Nicolas Coustou. XVIII secolo

Foto: White Images / Scala, Firenze

Ma con tre trionfi avrebbe solo eguagliato Pompeo, e lui voleva essergli superiore. Voleva essere superiore a tutti, Cesare. C’era, in effetti, una quarta guerra che lo aveva visto prevalere, ed era proprio l’ultima: quella combattuta in Africa contro i suoi avversari politici sopravvissuti alla disfatta di Farsalo. Era stata una lotta durissima, durante la quale il dittatore aveva dovuto affrontare una tenace guerriglia per oltre sei mesi, prima di riuscire a costringere il nemico a una battaglia campale, dove il suo genio aveva finito invariabilmente per prevalere. E la vittoria a Tapso gli aveva permesso di spazzare via grossi calibri dell’opposizione come il suocero di Pompeo, Metello Scipione, e Catone Uticense, che avevano preferito suicidarsi piuttosto che usufruire della proverbiale clementia cesaris.

Si trattava, dunque, di una guerra civile, e sarebbe stato inaudito celebrare un trionfo per la vittoria in un conflitto del genere: nulla avrebbe potuto irritare di più i romani, che Cesare intendeva invece stupire e compiacere. Eppure il dittatore aveva bisogno di un quarto trionfo per superare Pompeo. Ma l’escamotage per aggirare la legge, la morale e il buon gusto c’era. A fianco dei pompeiani, infatti, si era schierato il re numida Giuba, che aveva portato in dote agli anticesariani schiere di cavalieri leggeri, celeberrimi per la loro dinamicità in battaglia e come esploratori. Anche lui era morto, scegliendo di battersi in un duello all’ultimo sangue con un altro celebre pompeiano, Marco Petreio. Alla fine erano rimasti uccisi entrambi. Ma la caduta del suo regno poteva giustificare il quarto trionfo che Cesare cercava.

Vercingetorige si reca all’accampamento di Cesare per presentare la resa

Vercingetorige si reca all’accampamento di Cesare per presentare la resa

Foto: Photo Josse / Scala, Firenze

Era una chiara forzatura, ma ormai il condottiero era diventato il padrone di Roma e il senato non aveva la forza di negargli più nulla. Anche perché i suoi soldati erano già dentro l’Urbe, a dispetto di tutte le disposizioni che ne vietavano l’accesso: «Non abbiate timore dei soldati», sostenne davanti ai padri coscritti, «considerateli nient’altro che una guardia del corpo del mio impero, che allo stesso tempo è anche il vostro». Cassio Dione racconta: «Dopo di ciò Cesare diede una splendida festa, come si addiceva a tante e così importanti vittorie, e celebrò i trionfi della Gallia, dell’Egitto, di Farnace, di Giuba con quattro spettacoli, che ebbero luogo in quattro giorni distinti». Fu un vero e proprio tour de force, che però non iniziò sotto i migliori auspici. Nel primo giorno l’asse del cocchio trionfale si spezzò proprio davanti al tempio della Fortuna, e il condottiero dovette proseguire su un altro carro. Nel corteo il dittatore non mancò di esibire quello che era stato il suo più valoroso avversario, il capo arverno Vercingetorige, che poco dopo sarebbe finito strangolato appena sotto le pendici del Campidoglio, nel carcere Mamertino. Poi Cesare salì in ginocchio la scalinata del Campidoglio, dove lo attendeva un altro cocchio eretto in suo onore davanti alla statua di Giove e un’immagine del mondo con una scritta, “semidio”, che in seguito fece rimuovere.

Il giorno seguente spettò al trionfo egiziano. Cesare vi esibì un’altra delle “sue prede” più preziose, la sorella minore di Cleopatra, la ventiduenne Arsinoe, la cui vista mosse a compassione i romani. Con lei il dittatore fu più clemente, risparmiandole la vita ed esiliandola a Efeso, dove dopo la morte del suo vincitore sarebbe stata fatta uccidere da sicari di Marco Antonio per ordine di Cleopatra. Poi toccò al trionfo pontico: in mancanza del re, morto in combattimento dopo la sconfitta, campeggiava un cartello con la proverbiale scritta “Veni, vidi, vici”, a significare la rapidità con cui il dittatore aveva concluso la campagna.

Giulio Cesare percorre le strade di Roma sul suo carro trionfale con una corona d’alloro in testa

Giulio Cesare percorre le strade di Roma sul suo carro trionfale con una corona d’alloro in testa

Foto: © Her Majesty Queen Elizabeth II, 2018 / Bridgeman / Aci

A chiudere le cerimonie venne il trionfo africano, il più imbarazzante in quanto «si trattava di guerre civili di nessun decoro per lui e motivo di vergogna e malaugurio per i romani», scrive Appiano. Cesare vi esibì il figlio del sovrano, Giuba II, che poi sarebbe diventato un apprezzato scrittore di lingua greca, nonché re di Numidia per volere di Augusto grazie al matrimonio con Cleopatra Selene, figlia di Antonio e Cleopatra. I romani storsero il naso nel vedere i cartelloni raffiguranti i protagonisti sconfitti; il trionfatore ebbe tuttavia il buon senso di non ritrarre Pompeo (che dopo la disfatta di Farsalo era fuggito in Egitto ed era stato assassinato per ordine del re Tolomeo XIII), ancora molto amato dai cittadini.

Ai soldati fu concessa più libertà di parola del solito, ed essi ne approfittarono con offese e insinuazioni “da caserma”. Tornò d’attualità l’antica diceria secondo cui Cesare, da giovanetto, era stato l’amante del re di Bitinia Nicomede: «Cesare ha piegato i galli, ma Nicomede ha piegato Cesare», era il motto che circolava tra le file dei legionari incolonnati dietro il suo cocchio, e in seguito il dittatore pretese di poter giurare per smentire una volta per tutte quelle voci. Poi si udivano anche grida di questo tenore: «Se ti comporterai bene, sarai punito, se ti comporterai male, sarai re», facendo riferimento alla sua spregiudicatezza, che gli aveva consentito di raggiungere una posizione sempre più somigliante a quella di un sovrano.

L’arco di Orange, eletto in epoca augustea, fu costruito per commemorare le numerose vittorie del generale Germanico e poi venne successivamente dedicato all’imperatore Tiberio

L’arco di Orange, eletto in epoca augustea, fu costruito per commemorare le numerose vittorie del generale Germanico e poi venne successivamente dedicato all’imperatore Tiberio

Foto: Luigi Vaccarella / Fototeca 9x12

   

Cesare sapeva essere generoso anche col popolo, e al termine dei cortei trionfali largheggiò con un banchetto da 22mila triclini e ampie distribuzioni di grano e olio. A ogni cittadino diede 400 sesterzi, 100 in più di quanto aveva promesso, e ai soldati una gratifica straordinaria di 20.000 sesterzi; ma quando si rese conto che il numero di coloro cui spettava il grano gratuito era cresciuto a dismisura, fece rivedere i requisiti minimi abbattendolo della metà. E mentre la plebe si abbandonava alle libagioni, il dittatore entrò nel foro che portava il suo nome coi calzari ai piedi e incoronato da ghirlande di fiori, poi si trasferì a casa seguito da un corteo di gente comune e accompagnato da elefanti che portavano fiaccole.

A Roma fiorirono ovunque giochi e spettacoli e per la prima volta al circo gli spettatori poterono fruire di un velo di lino che riparava le tribune dal sole. Cesare aveva anche fatto costruire un apposito teatro per la caccia alle fiere e le lotte dei gladiatori – il primo anfiteatro della storia di Roma – dove si vide la prima giraffa sul suolo europeo, che i contemporanei chiamavano “cammellopardo”. Tra i tanti combattenti di ogni ceto ed etnia che si esibirono nella nuova costruzione e nel Circo Massimo, dai prigionieri di guerra agli equestri, dagli schiavi ai figli di senatori, vi furono anche elefanti, che si scontrarono in una battaglia con venti animali per parte. Le strutture all’interno dell’arena furono addirittura smantellate per far posto agli accampamenti dei singoli schieramenti, che raggiunsero in certe occasioni il migliaio di uomini ciascuno. Ancor più sorprendente fu la battaglia navale tra una flotta di Tiro e una egiziana, che il dittatore allestì in un bacino artificiale ricavato nel Campo Marzio, offrendo agli spettatori la prima naumachia della storia di Roma.

Ma all’ombra di questo profluvio di festeggiamenti e di gioia si agitava il malcontento: per il regime monocratico che il dittatore aveva istituito, per le enormi spese sostenute, per lo spropositato ammontare di onori di cui il senato lo ricopriva, per il gran numero di uomini uccisi negli spettacoli, perché i soldati non erano mai contenti, e avrebbero voluto per sé il denaro sperperato nelle celebrazioni. Qualcuno venne anche giustiziato per sedare i disordini.

Il dittatore danzava su un filo sottile, e ben presto nuovi passi falsi gli avrebbero tolto il sostegno anche dei suoi più stretti collaboratori, nonché degli uomini che aveva graziato nella guerra civile e addirittura gratificato delle cariche più importanti. Poco più di un anno lo separava dalle idi di marzo.

Divenuto dittatore a vita, Cesare si attirò l’odio di un gruppo di senatori che nel 44 a.C. lo assassinò all’interno della curia

Divenuto dittatore a vita, Cesare si attirò l’odio di un gruppo di senatori che nel 44 a.C. lo assassinò all’interno della curia

Foto: Scala, Firenze

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