I suoi genitori volevano che diventasse un avvocato o un prete, ma fin da bambino Giuseppe Garibaldi era pervaso dal desiderio di vivere avventure. Nel 1824, all'età di 16 anni, si arruolò su una nave mercantile a Nizza, la sua città natale, e per un decennio viaggiò nel Mediterraneo e nel Mar Nero, commerciando e schivando gli attacchi dei pirati. Fu in uno di quei viaggi, nel 1833, che scoprì l'altra sua vocazione: la politica.
Un marinaio gli raccontò di Giuseppe Mazzini, il capo di un'organizzazione segreta, la Giovine Italia, che si batteva perché l'Italia diventasse una repubblica democratica e unificata, espellendo le dinastie assolutiste che dal 1815 governavano i vari stati in cui era diviso il Paese. Dopo aver incontrato Mazzini a Londra, Garibaldi si arruolò nella Marina del Regno di Sardegna per diffondere le sue idee rivoluzionarie. Dopo che partecipò a un fallito ammutinamento in Savoia nel 1834, le autorità lo considerarono uno dei capi e fu condannato a morte per tradimento. Ma Garibaldi era già scappato.
Giuseppe Garibaldi. Illustrazione del The Graphic del 10 giugno 1882 colorata posteriormente
Foto: The Print Collector / Heritage Ima / Cordon Press
Costretto all'esilio, nel settembre 1835 s'imbarcò per Rio de Janeiro. Intendeva entrare a far parte della comunità italiana locale, dedita al commercio e intrisa d'ideali rivoluzionari. A quel tempo, la realtà brasiliana era turbolenta. Il governo della provincia del Rio Grande do Sul aveva dichiarato l'indipendenza dall'imperatore Pedro II. Garibaldi si unì alla loro lotta: dal 1837 combatté una guerra corsara a bordo di un peschereccio assieme a dodici uomini. «Con una garopera [una nave dedicata alla pesca della garopa, un pesce locale] sfidiamo un impero e sventoliamo la bandiera della libertà su questi mari», scrisse con enfasi nel suo diario.
Guerra in Uruguay
Ferito nel corso di una sparatoria, si riprese a Buenos Aires e poi si arruolò al servizio dell'Uruguay, allora in guerra contro l'Argentina del dittatore Rosas. Garibaldi formò la Legione Italiana, un battaglione composto per lo più da esuli politici che indossavano come divisa una camicia rossa; questo colore era stato scelto a caso, ma da allora avrebbe identificato i garibaldini in tutte le battaglie a cui parteciparono. Come bandiera sventolavano uno stendardo nero su cui si stagliava un vulcano in eruzione, un chiaro riferimento al Vesuvio e allo sconvolgimento rivoluzionario che stava per scoppiare in Italia.
Garibaldi consolidò una reputazione di uomo incorruttibile e altruista che sarebbe rimasta sempre intatta
A Montevideo Garibaldi consolidò quella fama di uomo incorruttibile e disinteressato che sarebbe rimasta per sempre intatta. «Nessuna somma potrà comprare la mia fiducia nella libertà dei popoli», fu la risposta data al dittatore Rosas, quando questi gli offrì la cifra astronomica di 30.000 dollari per convincerlo a tradire i suoi. Rifiutò anche le proprietà terriere che il governo uruguaiano offrì a lui e ai suoi uomini per i loro servizi. Intento, dall'America Latina la ripercussione delle sue gesta si diffuse in tutto il mondo: anche nella sobria Camera dei Lord di Londra fu descritto come un vero eroe romantico, altruista e disposto a correre rischi per le cause più nobili.
Giuseppe Garibaldi a Caprera. Olio su tela. Vincenzo Cabianca, 1870 circa
Foto: The Granger Collection, New York / Cordon Press
D'altronde l'Uruguay fu anche il luogo dove Garibaldi visse il suo amore più intenso: quello che lo unì a una giovane brasiliana di umile famiglia, Anita Ribeiro da Silva, che conobbe nell'autunno del 1839 a Laguna, nella provincia di Santa Catarina. Nel 1842 la sposò nella chiesa di Montevideo, capitale dell'Uruguay, dopo che lei gli aveva già dato il primo figlio. Anita rimase a fianco di Garibaldi sia nella vita privata che in guerra. L'"Amazzone brasiliana" (così la chiamavano) lo seguiva ovunque; nei momenti di pericolo brandì la spada e combatté per la libertà, mentre metteva al mondo tre bambini.
Dall'Italia all'esilio
La notizia dei disordini del 1848 lo riportò in Italia. A Palermo e a Napoli, in Toscana e nello Stato pontificio scoppiarono movimenti popolari che chiedevano l'istituzione di regimi costituzionali. A marzo le insurrezioni di Milano e Venezia costrinsero gli austriaci a ritirarsi dalla Lombardia e dal Veneto. Il sovrano di Sardegna e Piemonte, Carlo Alberto I, paladino del nazionalismo italiano, iniziò la Prima guerra d'indipendenza in Italia. Era il gesto che i patrioti stavano aspettando. Furono mobilitati volontari da tutta Italia, compreso Garibaldi, che prese il comando di una squadriglia operante a nord di Milano.
Vignetta satirica inglese del 1860
Foto: The Granger Collection, New York / Cordon Press
Il movimento repubblicano toscano e veneziano si estese fino alla stessa Roma. Nel febbraio 1849 nella capitale dello Stato Pontificio s'insediò un governo repubblicano e il papa venne espulso. Tra le centinaia di volontari che giunsero in città c'era Garibaldi, che subito assunse e il comando militare in difesa della repubblica. L'impresa però fallì quando Roma fu attaccata da un contingente francese di 35.000 uomini, convocato da papa Pio IX, che si reinsediò nel 1849. Garibaldi fu protagonista di una drammatica fuga a Venezia, durante la quale morì la sua amata Anita (che era incinta), sfinita dal viaggio.
Garibaldi tornò in esilio. Prima andò a Tangeri, poi a Liverpool – in quell'Inghilterra che tanto lo ammirava – e infine a New York, dove si guadagnava da vivere lavorando in una fabbrica di candele creata da Antonio Meucci, l'inventore del telefono e dove visse anni grigi, senza progetti, con pochi amici e ancor meno soldi. Nel 1854 il governo piemontese gli permise di tornare a Nizza, la sua città natale, e poi di stabilirsi nella sua proprietà a Caprera, un'isola semidesertica nel nord-est della Sardegna. Nel 1857 Garibaldi aveva cinquant'anni e soffriva di reumatismi che gli procuravano forti dolori quando andava a cavallo. Sembrava che i suoi progetti generosi dovessero fermarsi di fronte all'età e alla sua salute precaria. Ma doveva ancora compiere l'impresa che avrebbe finito per consacrarlo come figura mitica della storia d'Italia: la campagna in cui, con soli mille volontari, conquistò il potente regno di Sicilia e Napoli.
Garibaldi e Vittorio Emanuele II. Incisione del 1860 circa
Foto: Cordon Press
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Dittatore di Sicilia
Nel 1859 Camillo Benso conte di Cavour, primo ministro del re del Piemonte Vittorio Emanuele II, proclamò la Seconda guerra d'indipendenza italiana per cacciare gli austriaci dalla penisola. Alla testa di un corpo di volontari, i Cacciatori delle Alpi, Garibaldi occuparono Como, Bergamo e Brescia, città della Lombardia che passarono così sotto il dominio piemontese. Ma l'inaspettato ritiro dei francesi, alleati del Piemonte (luglio 1859), impedì un ulteriore sviluppo politico della guerra. Mancava liberare il sud (il regno borbonico delle Due Sicilie) e lo Stato Pontificio. Vittorio Emanuele II e Cavour avevano bisogno di un pretesto per riprendere la guerra e completare l'unità italiana. Fu allora che Garibaldi propose la sua spedizione a Napoli.
La spedizione dei Mille partì da Genova alla volta della Sicilia nel maggio 1860. Garibaldi e le sue migliaia di volontari erano armati di vecchi fucili e avevano a malapena i cannoni, ma riuscirono a eludere le forze borboniche per sbarcare a Marsala senza problemi. Sebbene lo squilibrio di forze fosse eccessivo, quando uno dei suoi luogotenenti consigliò a Garibaldi di ritirarsi questi rispose: «Bixio, qui si fa l’Itàlia o si muòre». Garibaldi si proclamò dittatore della Sicilia in nome di Vittorio Manuele e ingrossò il suo esercito di nuovi volontari, con i quali riuscì a sconfiggere i borboni. Passò presto Reggio per dirigersi verso Napoli, frettolosamente abbandonata dal re Francesco II di Borbone. Lì fu accolto da una folla inferocita: un successo inaspettato che cambiò radicalmente il panorama politico. Poche settimane dopo 40mila garibaldini sconfissero al Volturno un esercito borbonico di gran lunga più numeroso.
Giuseppe Garibaldi alla battaglia di Digione il 26 novembre 1870
Foto: Rue des Archives / Cordon Press
Fu allora che Cavour, sfruttando il peso militare e internazionale dello Stato sabaudo, convinse il re Vittorio Emanuele II ad andare a Napoli, con un duplice obiettivo: appropriarsi dell'esito politico della spedizione garibaldina e fermare Garibaldi e i suoi uomini , che volevano marciare su Roma. Già convinto che la soluzione monarchica fosse inevitabile, Garibaldi s'incontrò con il re e accettò di consegnare il regno delle Due Sicilie. Entrò con lui a Napoli il 7 novembre 1860; il giorno dopo si ritirò nella sua residenza sull'isola di Caprera, rifiutando ogni ricompensa ufficiale.
Ma la sua carriera non finì qui. Negli anni successivi tentò due volte di conquistare Roma per farne la capitale del nuovo stato italiano, e nel 1870 combatté nell'esercito francese contro la Prussia. Affaticato e tormentato dal dolore, riuscì ad occupare Digione con ventimila volontari, unico successo francese in quel conflitto. I suoi ultimi dieci anni trascorsero a Caprera, tra ricordi e amici, e con il sostegno di tanti ammiratori da tutto il mondo. Ormai era diventato un mito vivente, l'"eroe dei due mondi", il combattente che si batteva per la libertà in America Latina e in Italia.
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