Era l’anno 70 d.C. quando le legioni romane comandate da Tito, figlio dell’imperatore Vespasiano, misero Gerusalemme a ferro e fuoco. Dopo aver massacrato gli abitanti e dopo aver saccheggiato e distrutto il Tempio di Salomone, Tito e i suoi luogotenenti credevano di aver soffocato definitivamente la ribellione giudaica contro il dominio di Roma, che era iniziata quattro anni prima. Restavano soltanto alcune ridotte ribelli, in particolare tre fortezze sulle rive del Mar Morto. Due di queste, Macheronte e Herodion, non tardarono a cadere. La terza, invece, oppose un’accanita resistenza e costrinse l’esercito a organizzare una delle più grandi e più ardue operazioni di assedio della storia di Roma.
Masada si erge su un promontorio roccioso a breve distanza dal Mar Morto. I resti del palazzo di Erode sono distribuiti su tre diverse terrazze sovrapposte sui pendii del colle che culmina in un pianoro
Foto: Duby Tal / Albatross / Age Fotostock
Masada si trova su un promontorio roccioso che si eleva 400 metri sul livello del Mar Morto. Il luogo era stato utilizzato come fortezza fin dal II secolo a.C., ma fu Erode il Grande, re di Giudea tra il 37 e il 4 a.C. e alleato dei romani, a farne una cittadella regale, costruendo una muraglia, una torre di difesa, magazzini, cisterne, caserme, arsenali e residenze per i membri della famiglia reale. Dall’anno 6 d.C. vi era di stanza una guarnigione romana.
Allo scoppio della rivolta giudaica nel 66 d.C., un gruppo di ribelli prese possesso della piazzaforte ed eliminò la guarnigione romana. Guidati da un certo Menahem, e dopo la sua morte dal nipote Eleazar ben Yair, appartenevano a un gruppo giudaico radicale, i sicarii, così chiamati per il pugnale o sica che erano soliti usare. I sicarii erano la frangia più estrema degli zeloti, un movimento messianista che propugnava l’uso della violenza per liberarsi dal giogo romano. Agli occhi dei romani, invece, i sicarii erano soltanto dei criminali che avevano sfruttato la rivolta contro Roma come pretesto per i loro abusi, secondo quanto riportato nella sua Guerra giudaica da Giuseppe Flavio, il principale cronista della campagna.
In effetti, nonostante avessero conquistato Masada all’inizio della guerra, gli uomini di Eleazar ben Yair non combatterono contro i romani, ma, utilizzando Masada come base, si dedicarono a devastare la regione del Mar Morto, rendendosi protagonisti di imprese come il saccheggio della vicina oasi giudaica di Ein Gadi (Engaddi), dove uccisero settecento persone.
Distruzione del tempio di Gerusalemme da parte dei romani guidati da Tito. Dipinto di Francesco Hayez, 1867
Foto: Akg / Album
La vita in una fortezza
Durante gli anni di guerra contro Roma, i sicarii di Masada modificarono le costruzioni della fortezza adattandole alle loro necessità e alle pratiche religiose. Costruirono botteghe e piccole abitazioni separate da tramezzi, all’interno delle quali gli archeologi hanno rinvenuto utensili di uso quotidiano come recipienti di pietra per il cibo, ideali per evitare qualsiasi impurità rituale descritta nella legge giudaica. Vennero costruiti anche bagni destinati alle abluzioni rituali (mikvaot in lingua ebraica) e un forno per cuocere il pane. Nello spogliatoio dell’edificio delle terme di Erode furono aggiunte delle panche e una vasca in un angolo.
I ribelli adattarono alle loro necessità anche la sinagoga, costruendo una panca continua, e ciò suggerisce la necessità di accogliere molte più persone rispetto al passato, quando gli edifici servivano solo per il re, la sua famiglia e alcuni cortigiani. Negli scavi della sinagoga furono scoperti frammenti di ceramica (ostraka) con l’iscrizione “decima dei sacerdoti”, il che significa che si preoccuparono di pagare il tributo dovuto al Tempio di Gerusalemme, e una ghenizah, una buca scavata nel terreno per custodire i testi sacri che, ormai deteriorati, non si potevano più usare per il culto. Tutto ciò indica che i sicarii osservavano scrupolosamente la Legge di Mosè, seppur in una versione radicale che, secondo loro, li autorizzava a togliere la vita sia a tutti i nemici di Israele sia ai compatrioti che non obbedivano alla Legge.
Nel corso della guerra, Masada accolse un numero sempre crescente di giudei che fuggivano all’opera di devastazione del Paese. Gli scavi hanno portato alla luce dei reperti che dimostrano che, oltre ai sicarii, sulla rocca di Masada si rifugiarono anche i samaritani (una comunità di ascendenza giudaica ritenuta però impura dai giudei) e gli esseni, una setta ascetica giudaica che aveva una comunità a Qumran, non lontano da Masada. La comunità degli esseni a Qumran era organizzata in dieci zone, ciascuna al comando di un capo. La scoperta di alcuni ostraka che stabiliscono la suddivisione del pane in dieci sezioni ci ha permesso di conoscere il nome di altri leader ribelli oltre a Eleazar ben Yair: Yehohanan, Simón, Yerahemeyah, Bar Levi, Talmai, Peliah o Dositeo.
Assalto a Masada. I romani dispongono le catapulte e le torri d’assedio sulla rampa davanti alle mura. Incisione del XIX secolo
Foto: Look and Learn / Bridgeman / Aci
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Comincia l’assedio
All’inizio del 73 d.C., Lucio Flavio Silva, comandante della Legio X Fretensis, si preparò ad affrontare i ribelli di Masada. Dalla caduta di Gerusalemme erano passati già tre anni, e tale dilazione di tempo è piuttosto sorprendente, come lo è il fatto che la risoluzione di partire all’attacco di Masada fu determinata più da opportunità economiche che da considerazioni di tipo militare. I ribelli di Masada, infatti, mettevano in pericolo l’attività delle piantagioni di balsamo della vicina Ein Gadi, estremamente redditizia – secondo quanto riportato da Plinio il Vecchio, il commercio dei profumi di Giudea produsse la notevole somma di 800.000 sesterzi durante i cinque anni di guerra –, e ai romani non conveniva perdere questa importante fonte di reddito.
L’assedio di Masada presentava diverse difficoltà. I romani dovevano far arrivare l’acqua da Ein Gadi, situata a parecchi chilometri di distanza, e i viveri da Gerico o da Gerusalemme, poiché nella depressione del Mar Morto, 400 metri sotto il livello del mare, le temperature, torride in estate e gelide in inverno, impedivano la pratica dell’agricoltura. Sulla cima di Masada, invece, il clima era più mite e gli assediati potevano contare su riserve d’acqua e viveri, oltre che sulla disponibilità di armi. Animati da uno spirito indomito, i sicarii erano disposti a difendersi fino alla fine. Il generale romano ne era consapevole e per questo organizzò una grande operazione di assedio, deciso a evitare che la fiamma della ribellione riprendesse vigore.
Silva fece costruire una muraglia che circondava tutto il promontorio, con torri di vigilanza a intervalli regolari, e allestì in totale otto accampamenti che non dovevano servire solo ad alloggiare le truppe, ma anche a evitare fughe degli assediati e a difendersi da incursioni esterne. Successivamente ordinò di costruire una rampa sul lato ovest, quello che presentava il dislivello minore, di appena cento metri. Per questi lavori, che durarono sette mesi, furono impiegati giudei fatti prigionieri durante la guerra. Una volta portata a termine la rampa, sulla sua cima fu costruita una piattaforma sulla quale venne installata una torre d’assalto.
Una delle stanze del palazzo di Erode, a Masada. Il pavimento è un colorato mosaico geometrico
Foto: Bridgeman / Aci
Sacrificio collettivo
Quando iniziò l’attacco, i romani riuscirono a demolire un tratto delle mura difensive a colpi d’ariete, ma i difensori chiusero la breccia con legno e pietre. Giuseppe Flavio narra che allora i romani appiccarono un incendio che, per un cambio improvviso della direzione del vento, per un istante minacciò l’integrità della loro torre. Quel giorno Masada non cadde, ma sia i romani sia i giudei sapevano che era solo questione di tempo. Secondo l’autore della cronaca, durante la notte Eleazar ben Yair pronunciò un discorso con il quale persuase i difensori di Masada che la cosa migliore era togliersi la vita per risparmiarsi l’orrore di vedersi umiliati dai romani. Una volta che tutti furono d’accordo, diedero alle fiamme beni, oggetti personali e viveri, avendo però cura di lasciarne una parte intatta per rendere evidente che non morivano per mancanza di rifornimenti. Poi, dato che la legge ebraica proibisce il suicidio, ogni uomo si incaricò di dare la morte alla moglie e ai figli, dopo di che furono sorteggiati dieci uomini che uccisero tutti gli altri. Infine, uno di essi tolse la vita agli altri nove e per ultimo a sé stesso. Quando il giorno seguente i romani entrarono a Masada si trovarono davanti oltre 950 cadaveri e solo sette sopravvissuti: due anziane donne e cinque bambini che si erano nascosti e che narrarono ciò che era avvenuto sulla rocca di Masada durante l’assedio.
Negli ultimi anni, però, le ricerche e gli studi in campo archeologico hanno messo in discussione l’esattezza del racconto di Giuseppe Flavio. Da una parte, l’archeologia non è riuscita a confermare che a Masada abbia avuto luogo un suicidio collettivo. Dall’altra, nonostante i segni di una battaglia rinvenuti nei pressi della rampa, vi è chi sostiene che questa non fu mai portata a termine, e che pertanto non fu mai operativa, il che smentirebbe la scena del combattimento con la torre e l’ariete il giorno prima della caduta di Masada.
La legenda di questa moneta di bronzo romana, 'Iudaea capta', allude alla sottomissione della Giudea al potere di Roma. I secolo d.C. Museo d’Israele
Foto: E. Lessing / Album
Comunque siano andate le cose, Masada finì in mano romana, e il ricordo dei sicarii di Eleazar ben Yair finì per stemperarsi nelle pagine dei libri di storia. Per commemorare la vittoria, Roma coniò una moneta con la legenda Iudaea capta e l’immagine di un generale in atteggiamento di sfida, una palma (simbolo del Paese) e una donna seduta che piange.
Il ricordo di Masada si è perso per quasi millenovecento anni, fino a quando la sua “riscoperta” a metà del XX secolo non ne fece un simbolo della tenacia giudaica nella difesa dell’indipendenza e della libertà.
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