La Firenze in cui, nel 1265, nacque Dante Alighieri era molto diversa dalla città che possiamo vedere oggi. Nel corso dei secoli è cambiata molto più profondamente di altre città sue vicine e rivali. I centri storici di Siena, Arezzo o Pisa, il cui sviluppo economico e urbano si arrestò bruscamente nel Trecento, conservano tuttora in sostanza l’aspetto medievale che avevano allora. Firenze invece, proprio a causa del suo successo come città dominante in Toscana, alla sua dimensione medievale ne ha successivamente aggiunto una rinascimentale, una barocca, una neoclassica… A dire il vero, già la Firenze che Dante lasciò al momento dell’esilio, nel 1302, era molto diversa per dimensioni e aspetto da quella in cui era nato. Il Duecento rappresentò infatti un periodo di straordinaria crescita e trasformazione per la città, che lasciò un segno profondo anche sul futuro sviluppo urbano.
Dante con in mano la Divina Commedia. Oltre ai tre regni ultraterreni da lui descritti, vi è ritratta la città di Firenze. Domenico di Michelino. 1465. Santa Maria del Fiore, Firenze
Foto: Bridgeman
Nella prima metà del XII secolo, la Firenze «sobria e pudica» di Cacciaguida (Paradiso, XV), rimpianta dal suo discendente Alighieri, contava probabilmente tra i 10 e i 15mila abitanti, saliti a 50.000 ai primi del Duecento, poi a 70.000 circa alla metà del secolo per raggiungere i 100mila nel 1300. In questa data Firenze era una delle città più grandi d’Italia, con Milano, Venezia e Genova. E nella cristianità solo la Parigi dei Capetingi superava, con i suoi 150.000 abitanti, le metropoli italiane.
Riflesso di questa crescita fu il continuo allargamento della cerchia delle mura che proteggevano Firenze. La cerchia carolingia fu sostituita da una seconda cinta, più ampia, all’epoca della contessa Matilde di Canossa (1046-1115), ma nel 1172-75 ne venne realizzata una nuova, che moltiplicava per quattro la superficie della città, e per la prima volta si estendeva anche al di là del fiume Arno. Anche questa cinta però si dimostrò ben presto insufficiente e nel 1284 venne avviata la costruzione di una nuova, amplissima cerchia che racchiudeva un’area otto volte superiore rispetto a quella precedente. Dante tuttavia non vedrà la conclusione – avvenuta nel 1333 – di quest’opera imponente, che era destinata a segnare i confini della città addirittura fino alla seconda metà dell’Ottocento. Per Firenze, come per diverse altre città italiane, le dimensioni raggiunte in quest’epoca rappresentarono infatti un limite non più valicato per secoli, l’apogeo dello sviluppo urbano. La Firenze, pur splendida, di Lorenzo il Magnifico (1449-1492) aveva poco più della metà degli abitanti della Firenze di Dante e quella che fu capitale provvisoria del Regno d’Italia tra il 1865 e il 1871 era appena poco più grande.
La Firenze del tempo di Dante aveva circa 100mila abitanti; quella dell'epoca di Lorenzo il Magnifico poco più della metà
Fiorentini ‘contro’: guelfi e ghibellini
Dall’epoca di Cacciaguida a quella di Dante molte altre cose erano cambiate dentro e fuori i confini della città, oltre alle sue dimensioni. La Firenze dell’inizio del Duecento era ancora dominata da una nobiltà cavalleresca e feudale che aveva le basi del suo potere e della sua ricchezza nelle campagne e che riproduceva all’interno delle mura i suoi valori e i suoi contrasti di clan e di fazione. Il profilo di Firenze che si stagliava all'orizzonte era infatti dominata dalle case-torri (alte talvolta anche 70 metri) che costituivano, sul piano militare ma anche simbolico, il centro di potere delle consorterie – federazioni di famiglie – che dominavano la città. Erano insomma una sorta di trasposizione urbana dei castelli onnipresenti nelle campagne del tempo e come questi erano spesso teatro di feroci scontri. Per avere un’idea di come potesse apparire Firenze allora, dovremmo pensare a San Gimignano e moltiplicarne le dimensioni.
Palazzo Vecchio Iniziato nel 1298 forse su progetto di Arnolfo di Cambio, il palazzo, situato nell’odierna Piazza della Signoria, nel Trecento era la sede dei priori, i magistrati che governavano la città
Foto: Jean-Pierre Lescourret / Corbis
Nella prima metà del Duecento, tuttavia, Firenze stava vivendo una straordinaria fase di espansione economica i cui protagonisti – la «gente nuova» arricchita dai «subiti guadagni» che l’aristocratico Dante guardava con disprezzo – avevano cominciato a pretendere voce in capitolo in una vita politica tradizionalmente turbolenta e spesso decisamente violenta. Fin dall’inizio del Duecento, infatti, il ceto dominante era diviso fra guelfi e ghibellini, per i quali il richiamo originario alle ragioni del papa e dell’imperatore era ormai diventato un puro pretesto per lotte di potere.
Nel corso del secolo a questo conflitto se ne sovrappose un altro, quello sociale fra l’antica nobiltà e il cosiddetto Popolo, l’élite del mondo degli affari e delle professioni, organizzata nelle cosiddette Arti maggiori. La prima di queste, l’arte detta di Calimala, era nata già alla fine del XII secolo e riuniva coloro che importavano i panni di lana grezzi dalle Fiandre per rifinirli e riesportarli. A essa, nel corso del Duecento se ne aggiunsero via via altre sei: l’Arte dei giudici e notai, della lana, della seta, del cambio, dei pellicciai, dei medici e speziali (a quest’ultima apparteneva Dante). Da allora alle antiche istituzioni comunali, con al vertice il Podestà e i suoi due consigli, si affiancarono quelle del Popolo, guidato da un capitano a sua volta assistito da due consigli. Una specie di “doppio Stato”, di doppio binario istituzionale che rende molto difficile seguire le vicende politiche fiorentine.
Realizzati tra il 1225 e il 1330 sulla base di cartoni di artisti come Cimabue, rappresentano uno dei più significativi complessi musivi medievali. Battistero di San Giovanni, Firenze
Foto: Shutterstock
Artigiani e banchieri al potere
Dante era stato costretto a iscriversi all’Arte dei medici e speziali perché, dopo il varo degli Ordinamenti di giustizia del gonfaloniere Giano della Bella nel 1293-95, l’appartenenza a un’Arte era la condizione necessaria per poter partecipare alla vita politica. Tale misura aveva sancito il rovesciamento dei rapporti di forza creatisi nella classe dirigente fiorentina nel corso del mezzo secolo precedente. Il Popolo era riuscito a estromettere dal potere le grandi famiglie aristocratiche – i cosiddetti Magnati – anche se ora doveva fare a sua volta i conti con la volontà di partecipazione politica degli artigiani.
La costruzione di Palazzo Mozzi, uno degli edifici civili più significativi di questo periodo, mostra come questi sviluppi sociali ed economici mutarono anche il volto urbanistico e architettonico della città. Il palazzo fu infatti realizzato, tra il 1266 e il 1273, sul sito in cui sorgevano prima le case-torri della stessa famiglia. La sua costruzione può essere presa a simbolo del passaggio da una città dominata da una nobiltà guerriera arroccata nelle sue fortezze urbane a una città “borghese”, i cui palazzi erano insieme residenze di prestigio e centri di organizzazione economica.
Il giglio, sullo stemma del Comune di Firenze fin dall’XI secolo, in origine era bianco su fondo rosso. I colori furono invertiti dai guelfi nel XIII secolo per segnare la loro ascesa al potere
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In realtà in questa città borghese e apparentemente moderna rimaneva molto del suo passato nobiliare. Anzitutto l’importanza delle solidarietà famigliari e di parentela nella vita economica e sociale. Le Compagnie di mercanti e banchieri – i Bardi, i Peruzzi, gli Spini, più tardi gli Alberti o i Medici – erano infatti saldamente organizzate su base famigliare. I legami matrimoniali rinsaldavano poi quelli affaristici. Nella Firenze di Dante, come in quella del suo avo Cacciaguida, quindi, il posto che un individuo occupava nella città dipendeva sempre dalla risposta alla domanda che Farinata degli Uberti rivolge al poeta nel X canto dell’Inferno: «Chi fur li maggior tui». Vale a dire, «Dimmi chi sono i tuoi antenati, da quale famiglia vieni e saprò chi sei e qual è il tuo posto nel panorama sociale e politico nella città». Essere guelfo o ghibellino, Bianco o Nero, magnate o popolano non costituiva una scelta individuale ma un destino quasi inevitabile, legato all’orientamento politico della propria famiglia.
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Firenze al centro del mondo
Non possiamo tuttavia cogliere la vita di Firenze in questo secolo a cavallo fra Due e Trecento se ci limitiamo a guardare ciò che avviene all’interno delle sue mura. Gli interessi economici, come i conflitti politici, legavano con mille fili Firenze al resto della Toscana, dell’Europa e del Mediterraneo. La solidarietà di fazione univa, per esempio, i guelfi o i ghibellini fiorentini a quelli delle altre città italiane. I sanguinosi conflitti civili scoppiati nelle vie di una città si trasformavano in vere e proprie guerre fra centri rivali, come Firenze e Siena, per il dominio sulla regione ma anche per quello sui mercati europei. Ma al di là della Toscana, Firenze era parte di un sistema di stati e di un equilibrio di potenza che aveva ormai dimensioni continentali.
Al pari delle grandi metropoli a noi contemporanee, come New York o Londra, Firenze era inoltre al centro di una circolazione a largo raggio di merci e capitali. Fu tale ruolo di piazza economica e finanziaria internazionale a sostenere in fondo la sua crescita, la sua forza politica e il suo splendore artistico. È proprio a un fiorentino, di poco più giovane di Dante, Francesco Balducci Pegolotti (1310-1347), che si deve la Pratica di mercatura, forse il più celebre manuale di commercio del Medioevo.
In ogni città d’Europa o del Mediterraneo di una certa importanza si stabilivano colonie di mercanti e banchieri fiorentini, che rifornivano i ricchi consumatori locali di merci di lusso provenienti da tutto il mondo e si rendevano indispensabili ai sovrani prestando loro il denaro di cui avevano un disperato bisogno per finanziare il fasto delle loro corti e il costo delle loro guerre. Dunque, nel 1300, l’orizzonte dei fiorentini era il mondo, o quasi. Simbolo di questa centralità economica di Firenze è la coniazione, a partire dal 1252, del fiorino d’oro, la moneta che divenne lo strumento di pagamento principale delle grandi transazioni internazionali e un punto di riferimento, insomma qualcosa di simile a un «dollaro del Medioevo», così come lo ha definito lo storico Armando Sapori (1892-1976).
L’alba del Rinascimento
A fare la grandezza di Firenze, a segnare il suo posto nel mondo e poi nella storia, non furono solamente gli uomini d’affari. Questa fu anche l’epoca della prima grande fioritura della cultura fiorentina. Fiorentini furono infatti la maggior parte degli esponenti dello Stil Novo: Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Gianni Alfani, oltre, naturalmente, allo stesso Dante. Fu soprattutto grazie a loro che il volgare toscano, fiorentino in particolare, diventò il fondamento della lingua italiana moderna.
Giudizio finale, di Coppo di Marcovaldo. Probabilmente Dante s'ispirò alla parte del mosaico riguardante l'inferno. Battistero di San Giovanni. XIII secolo. Firenze
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In campo artistico e architettonico, il fiorentino Cimabue (1240-1302) rappresentò una tappa fondamentale. Già all’inizio del Trecento, però, la sua fama fu oscurata – lo ricorda Dante stesso nell’XI canto del Purgatorio – dal suo allievo Giotto da Bondone (1267-1337), fiorentino del contado. Ad Arnolfo di Cambio (1230 circa-1310) sono ascrivibili a Firenze alcune delle realizzazioni più significative di quel periodo. La cattedrale di Santa Reparata (poi Santa Maria del Fiore) anzitutto, che fu integralmente rifatta a partire dagli ultimi anni del Duecento ma che restò a lungo incompiuta, e, probabilmente anche la chiesa di Santa Croce, edificata a partire dal 1294, e forse il Palazzo dei Priori, meglio conosciuto come Palazzo Vecchio, la cui costruzione iniziò nel 1298.
Con Giotto e Arnolfo cambiò il ruolo dell’artista. Prima di tutto per il carattere multiforme della loro attività: pittore e architetto Giotto (contribuì a realizzare il celebre campanile posto a fianco della cattedrale), architetto e scultore Arnolfo. Inoltre entrambi non furono più semplici artigiani, pur di alto livello, quali erano stati pittori, scultori e architetti medievali, ma appunto “artisti”, intellettuali contesi da papi, re e comuni che operavano quasi ovunque in Italia. Anche in questo Giotto, Arnolfo e Dante aprirono la strada alla grande fioritura umanistica e rinascimentale.
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