«Occhi bruni, capigliatura leonina. Uomo di mondo, ma allo stesso tempo "orso", orgoglioso e tutto dedito alla sua arte»: con queste parole il poeta Charles Baudelaire descrisse Eugène Delacroix. Nonostante tra i due ci fossero circa vent’anni di differenza, furono legati a lungo da amicizia e stima. L’autore di I fiori del male era comunque in buona compagnia: Delacroix fu sempre attratto dagli ambienti intellettuali – era un uomo molto colto – e intrattenne rapporti di amicizia con le più geniali menti del suo tempo, come la scrittrice George Sand e il suo compagno, il musicista Frédéric Chopin.

Eugène Delacroix, 'Autoritratto' (1837 circa); olio su tela, 65×54 cm, museo del Louvre, Parigi
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Eugène Delacroix nacque il 26 aprile 1798 a Charenton-Saint-Maurice, presso Parigi. Era il quarto figlio di Charles e Victoire Oeben. La madre apparteneva a una ricca famiglia di origine tedesca in cui spiccava il nonno Jean-François, un noto ebanista che aveva lavorato per Luigi XV. Il padre, invece, si occupava di politica e ricoprì, tra l’altro, importanti incarichi al ministero degli affari esteri e il ruolo di prefetto della Gironda. Alcuni sostenevano però che l’uomo non fosse il vero padre di Eugène, perché era stato gravemente ammalato nel periodo del concepimento, e ritenevano che Victoire avesse avuto una relazione con il nobile Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, amico di famiglia e protettore del pittore.
In ogni caso, Charles morì quando Eugène non aveva ancora compiuto sette anni. La madre nel 1806 decise di trasferirsi con la famiglia a Parigi, dove il giovane iniziò a frequentare l’altolocato liceo imperiale. Qui scoprì la passione non solo per la pittura, ma anche per la musica, la filosofia e la letteratura antica e moderna: una serie d’interessi intellettuali che l’avrebbero accompagnato per tutta la vita e avrebbero dato sempre quel “quid” in più alla sua produzione pittorica.
La morte della madre nel 1814 mise fine a quest’esperienza e l’anno successivo, per intercessione del parente Henri-François Riesener, riuscì a entrare nello studio di Pierre-Narcisse Guérin, un artista neoclassico abbastanza in voga all’epoca. Qui conobbe Théodore Gericault, di sette anni più grande, altro grande pilastro della pittura francese del XIX secolo, il quale, oltre a influenzare il suo modo di dipingere, gli avrebbe trasmesso una grande passione per i cavalli. In seguito Delacroix avrebbe posato per l’amico nella sua opera più famosa, La zattera di Medusa, nei panni dell’uomo disteso sul dorso.

'La zattera della Medusa', 1818-1819. Olio su tela, 491×716 cm. Parigi, Museo del Louvre
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Una grande cultura
Due anni dopo essere entrato nell’atelier e dopo aver compiuto un viaggio in Inghilterra, dove apprese la tecnica dell’acquerello, nel 1817 riuscì iscriversi all’Accademia delle belle arti. Nel 1819 ricette la sua prima commissione ufficiale: si trattava di una tela raffigurante La vergine delle Messi per la chiesa di Saint Orcemont: l’opera denota lo studio dell’artista su Michelangelo e soprattutto su Raffaello, che compì presso il maestro neoclassico.
Dopo altre commissioni, tra cui alcune decorazioni nella casa dell’attore François-Joseph Talma, nel 1822 esordì presso il Salon con La barca di Dante, opera con cui ottenne un grande successo da parte della critica (nonostante qualche parere negativo, come quello di Etienne-Jean Delécluze, che arrivò a definire il quadro «una crosta»), tanto che il re lo fece acquistare per il museo del Lussemburgo. Lui si scherniva dicendo che si trattava al massimo di un quadro «abbastanza importante», con il quale sperava di «acquistare un po' di notorietà», ma sicuramente sapeva che con quest’opera si era aperto la strada per un posto nell’olimpo dei grandi pittori parigini dell’epoca.
Nel frattempo, Delacroix approfondì le proprie conoscenze di storia, sia medievale sia soprattutto contemporanea, trasferendole poi in pittura fino a farne uno dei suoi tratti distintivi. A tal proposito, il critico Giulio Carlo Argan scrisse che «il carattere storico della sua pittura è proprio d’essere totalmente calata nella poetica romantica e in un’ostinata volontà di fare, a tutti i costi, pittura: per questo rimane il punto di partenza dell’arte moderna […] Insegnava a scorgere nella storia, non più un razionale concatenarsi di cause e di effetti, ma la dura necessità degli eventi, riservando all’arte il compito tutt’altro che consolatore di rivelare in essa una tragica bellezza che non poteva riscattarli ed assolverli, ma tuttavia dimostrava il persistere della vita là dove tutto è immagine di violenza e di morte». Seguirono quindi altre opere tratte da fatti “di cronaca”, come il Massacro di Scio (1823-1824), ispirato a un episodio della guerra d’indipendenza del popolo greco contro gli ottomani.

L'atelier di Eugène Delacroix nel 1852
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Nel 1830 realizzò la sua opera più celebre: La Libertà che guida il popolo. Fino ad allora, pur frequentando spesso i circoli intellettuali, Delacroix non aveva mai espresso una posizione netta nel dibattuto politico. Quando però nel luglio di quell’anno re Carlo X di Borbone ordinò lo scioglimento della Camera dei deputati, oltre a imporre una rigida censura della stampa, motivi per i quali il popolo era insorto in tre giorni di combattimento, anche il pittore decise di contribuire in qualche modo alla causa patriottica: «Ho cominciato un tema moderno, una barricata […] e, se non ho combattuto per la patria, almeno dipingerò per essa», dichiarò in una lettera. Presentata al Salon l’anno successivo, l’opera suscitò molte perplessità per la crudezza della rappresentazione. Fu comunque acquistata dal governo che però, poco tempo dopo, la relegò in un corridoio, dove rimase a lungo.
L’ambasceria in Marocco
Fondamentale fu, per la sua formazione e la sua produzione, un viaggio in Marocco compiuto nel 1832. Le circostanze della partenza furono del tutto casuali. Il nuovo sovrano Luigi Filippo alla fine del 1831 decise d’inviare un’ambasceria presso il sultano del Paese nordafricano per rassicurarlo circa la conquista francese della vicina Algeria; del gruppo faceva parte anche un pittore che avrebbe dovuto documentare il viaggio. Quando questi diede improvvisamente forfait, fu sostituito da Delacroix.
L’artista, se si esclude la breve esperienza britannica, non si era praticamente mai allontanato dalla Francia. Per questa ragione, è probabile che il viaggio fosse per lui carico di aspettative. Sicuramente, non furono deluse: il contatto con le popolazioni autoctone, i colori e i particolari effetti luministici del posto furono una vera e propria sorpresa per il pittore, che annotò tutte le sue impressioni in una serie di taccuini che contenevano anche diversi schizzi cui poi avrebbe attinto per il resto della sua carriera.

Appunto grafico raffigurante un'alcova di una moschea, 1832
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«Qui la gloria è una parola priva di senso […] il Bello va a passeggio per strada: c’è da impazzire e la pittura, o meglio, la frenesia di dipingere, sembra essere la pazzia maggiore», disse. Va comunque sottolineato che anche prima del viaggio aveva manifestato un certo interesse per l’”esotismo” del Vicino Oriente: negli anni venti, infatti, realizzò una serie di dipinti ispirati alle culture greca e turca, come per esempio, Turco che fuma su un divano del 1825. Durante una tappa in Algeria, grazie alla sua rete di amicizie, riuscì a introdursi in un harem e da qui sarebbe nato il celebre Donne d’Algeri nei loro appartamenti (1834), oggi al Louvre.
Compì anche un breve soggiorno in Spagna, poi nuovamente in Africa e alla fine fece ritorno definitivamente in Francia. Dopo quest’esperienza mutò significativamente il proprio approccio alla luce e al colore; inoltre, in pieno spirito romantico, creò un vero e proprio filone della sua produzione artistica, incentrato sui soggetti orientalistici, cercando di sottolineare la dignità, l’eleganza dei costumi e la storicità di popolazioni molto diverse a quelle cui i francesi erano abituati.
Gli ultimi anni
Nel 1833 Delacroix decise di voler diventare socio dell’Istituto delle belle arti di Parigi, una delle più prestigiose istituzioni nel settore: la sua candidatura tuttavia fu rifiutata per ben sette volte e riuscì a esservi ammesso solo nel 1857. Il pittore riteneva che ciò avrebbe ulteriormente migliorato la sua posizione, ma in realtà non ve ne sarebbe stato affatto bisogno. Il governo gli aveva concesso già diversi onori (per esempio, nel 1855 fu promosso commendatore della Legione d’Onore) e i più importanti intellettuali del suo tempo non avevano che parole di lode per lui. Da tempo ammalato, morì alle sette del mattino del 13 agosto 1863, assistito dalla sua fedele governante, Jenny Le Guillou.

Louis Antoine Léon Riesener, 'Eugène Delacroix', 1842, dagherrotipo, Museo d'Orsay, Parigi
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Delacroix fu spesso definito “il principe del Romanticismo”: accostando i colori primari con le sue pennellate veloci, attraverso una tecnica che lui stesso ribattezzò flochetage, rappresentò le passioni dell’uomo, i suoi aneliti di libertà e al contempo anche la forza dirompente della natura. La sua fama non si spense con lui: influenzò notevolmente diversi pittori delle generazioni successive, in primis gli Impressionisti, alcuni dei quali, come Claude Monet e Edgar Degas, erano anche collezionisti delle sue opere, e Pablo Picasso che, circa un secolo dopo, riprodusse ben quindici volte le sue Donne d’Algeri.
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