Erbe, funghi e radici: l'incolto nel Medioevo

Nel Medioevo lo sfruttamento dell’incolto era a portata di tutti. Ma erano le donne che conoscevano meglio le piante del bosco

Scenario di avventurose battute di caccia e rifugio di "streghe" e briganti, il bosco era in realtà una presenza quotidiana nelle vite degli uomini e delle donne del Medioevo. Al tramonto dell'epoca classica l'incontro della civiltà romana con le popolazioni celtico-germaniche aveva dato vita a una nuova cultura alimentare mista, dove carne e cibi di origine vegetale erano presenti nella dieta in maniera piuttosto equilibrata. La cura delle strade e delle città era ormai lasciata a sé stessa dall'amministrazione del tardo impero, e la natura si era avvicinata prepotentemente ai centri abitati. Terremoti ed irrigidimento del clima avevano contribuito al declino del modello alimentare basato sulla triade frumento-ulivo-vite. Si era dunque cominciato a differenziare il cibo sia attraverso la coltivazione di cereali minori sia con lo sfruttamento delle risorse disponibili nel cosiddetto saltus, l'incolto selvatico.

Illustrazione tratta dal Manoscritto Egerton 747 della British Library di Londra, risalente agli inizi del XIV secolo.

Illustrazione tratta dal Manoscritto Egerton 747 della British Library di Londra, risalente agli inizi del XIV secolo.

Foto: Pubblico dominio

Il bosco oltre il giardino

Subito fuori dalle mura cittadine si aprivano immensi spazi incolti traboccanti di risorse: stagni e torrenti in cui nuotavano pesci e crostacei, selve che nascondevano conigli saltellanti e aristocratici cervi, nidi colmi di uova e dolci favi di miele. E naturalmente alberi. In particolare i querceti erano indispensabili per l'allevamento dei maiali, ghiotti di ghiande. Qui i suini venivano tenuti a pascolare liberamente e spesso s'incrociavano con i cinghiali dando luogo a specie ibride. L'altro albero simbolo del Medioevo era rappresentato dal castagno. Al contrario della quercia, il castagno veniva curato, coltivato e innestato al fine di migliorarne il frutto, la cui raccolta era aperta a tutti. La castagna veniva chiamata “pane dei poveri”: si poteva essiccare e macinare ottenendo così una farina per la panificazione ma soprattutto per fare dolci e polentine dette puls. I frutti si mangiavano anche interi, da soli o spezzati nella minestra per dare sostanza, per questo erano molto apprezzati soprattutto nei periodi di quaresima, quando non si mangiava carne. Le castagne duravano a lungo conservate nel guscio. Come se non bastasse, il legno di castagno era molto pregiato e richiesto dai falegnami per realizzare mobili di valore.

Nel bosco, al margine delle strade di campagna o sulla riva degli stagni era facile trovare anche altri alberi da frutto che crescevano liberamente: alcuni come il fico, il melo, il pero o il ciliegio sono comuni anche oggi, altri li abbiamo dimenticati o non li sappiamo riconoscere: il sorbo, il corbezzolo, il nespolo, il giuggiolo, solo per fare alcuni nomi. All'epoca invece nulla andava sprecato, e anche l'acido corniolo o la dura cotogna finivano in cucina.

Illustrazione tratta dal Tractatus de Herbis, un compendio di piante medicinali datato 1440 circa.

Illustrazione tratta dal Tractatus de Herbis, un compendio di piante medicinali datato 1440 circa.

Foto: Pubblico dominio

La raccolta delle erbe

Nell'Alto Medioevo le erbe spontanee erano note a tutti, ma la loro raccolta era prerogativa femminile. Erano le donne che sapevano dove andare a cercarle e che tramandavano oralmente il loro sapere. Per loro si trattava di una pratica quotidiana che si perdeva nella notte dei tempi. Già nella preistoria, infatti, i ruoli erano suddivisi: l'uomo cacciava, la donna raccoglieva quel che la natura offriva. Spesso i nomi cambiavano da villaggio a villaggio. Si trattava di nomi popolari, evocativi: la lapsana comune diventava la gallinella grassa o erba delle mammelle poiché se ne ricavava un impiastro in grado di sfiammare gli ingorghi mammari che potevano verificarsi durante l’allattamento; il diuretico tarassaco veniva chiamato anche piscialetto; lo sclopit o selene, l’erba dedicata al dio Sileno, amico di Bacco, era nota con questo nome perché cresce in abbondanza nei vigneti, la piantaggine, dalle proprietà antinfiammatorie ed espettoranti, diventava orecchia di lepre o altrove lingua di cane per la sua forma. E ancora il bruscandolo a seconda delle zone poteva indicare l’asparago selvatico o i germogli di luppolo, l'ortica diventava garganella, il papagno era il papavero e così via.

In un contesto dove la fame e la preoccupazione per la reperibilità del cibo erano protagoniste, ogni risorsa veniva sfruttata. Certo, con le erbe non ci si sfamava, ma servivano a dare quel tocco di novità ai piatti quotidiani, seguendo lo svolgersi delle stagioni. Accanto ad esse, le donne raccoglievano anche bacche, radici e funghi. I medici dell'epoca mantenevano un certo riserbo sull'utilizzo di questi ultimi, per paura d'intossicazioni. Ma l'esperienza e la fame spingevano le contadine a portarli in tavola senza preoccuparsi troppo.

Illustrazione del Codex Vindobonensis. Österreichische Nationalbibliothek, Vienna. XIV secolo

Illustrazione del Codex Vindobonensis. Österreichische Nationalbibliothek, Vienna. XIV secolo

Foto: Alinari / Cordon Press

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In tavola

La base dell'alimentazione contadina dell'epoca era rappresentata da zuppe e minestre fatte con le verdure dell'orto, i legumi, i cereali. Spesso vi si aggiungevano radici selvatiche come la pastinaca, una sorta di carota selvatica, e quelle coltivate come le rape. Per insaporirle poi ci si sbizzarriva: a seconda della disponibilità si usavano le croste di formaggio, gli scarti della carne come ossa o cotenna, pesce di scarso pregio e in alcuni casi addirittura il vino. Certe ricette non disdegnavano nemmeno di cuocervi dentro un uovo. Per renderle poi più sostanziose, si spezzava il pane. Questo veniva preparato solitamente in casa, approssimativamente una volta al mese, portato a cuocere nel forno del villaggio e quindi conservato nella madia, un mobile di legno simile ad una cassapanca. A seconda del variare delle stagioni, i prodotti raccolti nel bosco, lungo i fossati o sul ciglio delle strade entravano nella pentola a rinnovare la monotonia della zuppa quotidiana. Il piatto che più di ogni altro si prestava al rinnovamento stagionale era la frittata: in estate si preparava con il formaggio fresco di malga, in autunno con i funghi e in inverno, dopo la macellazione del porco, con la luganiga. Ma quella che offriva un maggior numero di varianti era la frittata primaverile: dagli asparagi selvatici all'aglio orsino, dall'ortica alla rucola di fosso, le varianti erano infinite. Nei giorni di festa poi si preparavano torte e tortelli, delle focacce salate ripiene di erbe, formaggio, verdure e tutto quel che la fantasia (e la dispensa e il bosco) potevano offrire. Queste preparazioni sono arrivate ai giorni nostri, pur subendo delle mutazioni: l'erbazzone reggiano o la torta pasqualina genovese, solo per fare due esempi.

Erbe ed ortaggi non mancavano nemmeno sulle tavole dei ricchi, i quali però cercavano di nobilitarle accompagnandole con ingredienti di maggior pregio: l'umile aglio selvatico andava dunque ad aromatizzare il succulento papero arrosto e i finocchi venivano ingentiliti dal vivace zafferano, mentre la minestra di erbe di campo si arricchiva con abbondante pepe e cannella.

Illustrazione del Codex Vindobonensis. Österreichische Nationalbibliothek, Vienna. XIV secolo

Illustrazione del Codex Vindobonensis. Österreichische Nationalbibliothek, Vienna. XIV secolo

Foto: Alinari / Cordon Press

Erbe curative

Le donne, depositarie dei segreti delle erbe e delle loro proprietà medicamentose ricorrevano a infusioni, impiastri e decotti per curare i piccoli malanni quotidiani. Da lì alla creazione di filtri magici il passo era breve. Ad esempio la matricaria (ovvero la camomilla) era la pianta associata alla femminilità e il suo consumo era legato al ciclo per le sue proprietà calmanti. Invece il prezzemolo era usato come abortivo dalle mammane, donne spesso emarginate dalla società che vivevano nel bosco, fuori dal villaggio, e venivano considerate delle streghe. Vivendo immerse nella natura, detenevano profonde conoscenze dei metodi curativi ottenuti dalle piante. In ogni caso, la cura con le erbe era pratica comune e quotidiana. Ad esempio la lattuga veniva usata per favorire la montata lattea; dalle bacche di ginepro si ricavava un unguento contro i dolori reumatici e l'epilessia; la menta era rimedio contro le coliche renali e il sambuco veniva usato come vermifugo.

Lo sfruttamento dell'incolto, del saltus, rappresentava una risorsa cruciale in un'epoca storica in cui la più semplice delle erbe, la più misera delle bacche, poteva fare la differenza.

Illustrazione del Tacuinum sanitatis in Medicina. XIV secolo

Illustrazione del Tacuinum sanitatis in Medicina. XIV secolo

Foto: Rue des Archives/PVDE / Cordon Press

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