«Volli essere troppo virile e dimenticai che poi ero una debole donna». Sarebbero state queste secondo la propaganda fascista le parole pronunciate in fin di vita, agli inizi di novembre del 1924, da Ines Donati. Nonostante avesse aderito al fascismo poco tempo prima della marcia su Roma, Ines faceva già parte di quelle giovani attiviste nazionaliste che nel 1920 affiancavano le squadre armate maschili nell’esercizio indiscriminato della violenza contro i militanti “rossi”. La “pattriottica”, questo il soprannome della giovane marchigiana, era minuta, estroversa, coraggiosa. «Indossava la camicia blu, la gonna grigia e il berretto felpato del gruppo delle giovani nazionaliste, le Esploratrici» scrive la storica Victoria De Seta, e aveva atteggiamenti da vera squadrista. Una volta prese a schiaffi un deputato socialista in un caffè di Roma, mentre durante lo sciopero dei netturbini nel 1920 la si trova intenta a spazzare le strade della capitale dalla «follia bolscevica». Il fascio primigenio si nutriva di queste immagini epiche di dedizione e coraggio. Ciononostante alla sua morte “la patriottica” Ines venne dimenticata: «L’apparato fascista mostrò poca simpatia per l’estasi quasi religiosa di questa piccola Giovanna D’Arco, e ancor meno per la sua ambigua sessualità». Secondo la storica De Grazia i comportamenti imprevedibili e disinibiti delle giovani come Ines avrebbero potuto danneggiare la reputazione del movimento. Solo quando agli inizi degli anni ’30 il fascismo si lanciò nell’organizzazione della gioventù femminile, la salma di Ines venne riesumata e sepolta tra i martiri fascisti al cimitero romano del Verano e il suo “attivismo fanatico” considerato esemplare.
Vista laterale della statua di Ines Donati
Foto: Pubblico dominio
Donne in marcia
Quello di Ines Donati fu senza dubbio un contributo appassionato, fortemente dedito alla causa fascista ma desolatamente marginale in un movimento e poi in un partito e in una società forgiati passo dopo passo a misura d’uomo. Basti solo qualche dato. All’adunata dei fasci italiani di combattimento, tenutasi il 23 marzo 1919 in «una mediocre sala» in piazza San Sepolcro a Milano, su circa 120 partecipanti erano presenti solo 9 donne. Alla fine di ottobre del 1922, alle giornate della marcia su Roma, evento che segnò la presa del potere da parte del fascismo, presero parte poco più di un centinaio di donne su circa 15mila partecipanti.
«Nell’ottobre 1922 giorno e notte, nelle storiche giornate della marcia su Roma ci prodigammo ugualmente alla stazione e negli uffici occupati dai fascisti… Ecco perché facemmo parte dello squadrismo […] noi eravamo poche, o signori, ma la nostra fede era così profonda che lottammo e vincemmo». Le testimonianze di donne fasciste che esattamente un secolo fa presero parte alla marcia su Roma, evento che decretò la presa del potere da parte del fascismo, si contano sulla punta delle dita. Una delle più significative e intense venne per bocca della marchesa Corinna Ginori-Lisci, segretaria del fascio di Firenze. Nel discorso pronunciato all’inaugurazione di una scuola per l’infanzia a Firenze nel 1924, Corinna introduce due concetti-chiave utili a comprendere la partecipazione femminile al movimento fascista dal 1919 al 1922. Nonostante la marchesa parli di squadrismo femminile cui si fece «ricorso in giornate dolorose… per portare una parola di fede, per seguire un fratello ucciso», tale contributo fu completamente ignorato o, peggio, malvisto: «Quest’opera sublime di italianità ignorata dai più, fu da noi compiuta nel silenzio, fra il disprezzo di donne di tutte le classi sociali».
Donne con indosso la camicia nera partecipano alla marcia su Roma. Ultimi giorni di ottobre del 1922
Foto: TopFoto.co.uk / Cordon Press
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Quelle della prima ora
Le militanti della “prima ora”, tutte con una certa esperienza politica alle spalle, guardarono al fascismo come una forza moderna e liberatoria, pur consapevoli di alcuni limiti: «Aderivano a un movimento nel quale costituivano una sparuta minoranza, ricevevano un sostegno ben scarso se non nullo dagli uomini e non guadagnavano l’approvazione delle altre donne», scrive Victoria De Grazia. Erano quasi tutte esponenti alto-borghesi che condividevano il disgusto fascista per la mancanza di valori della società liberale, rifiutavano il socialismo e aspiravano a uno stato forte e ordinato. In testa a tutte le “compagne di lotta” del Mussolini socialista: Margherita Sarfatti, Regina Terruzzi e Giselda Brebbia. C’erano poi la “fiumana” Elisa Majer Rizzioli, che dai ranghi dannunziani passò tra il 1925 e il 1930 a fondare i fasci femminili, Angiola Moretti che ne fu segretaria dal 1927 al 1930 e Rachele Ferrari del Latte, vedova del veterano sansepolcrista Guido del Latte, anch’essa con ruoli dirigenziali.
Dal centro ai margini
Fanny Dini fu fascista sin dagli esordi. Erano gli anni dello squadrismo, della violenza repressiva e organizzata contro operai, organizzazioni politiche e sindacali: «Fanny prese parte alle lotte politiche degli anni Venti, scese in piazza in camicia nera, operò tra le squadre fasciste con interventi punitivi e repressivi, distinguendosi spesso come una delle squadriste di punta», scrive Angelo Piero Cappello. Dopo la Marcia la spavalda Fanny smise il manganello e il pugnace ghigno squadrista per diventare giornalista, poeta e romanziera, “penna di regime”. «L’intero movimento, una volta liberatosi di componenti e frange libertarie, fu fortemente maschilista, convinto delle doti superiori del genere maschile rispetto a quello femminile, benché si avvalesse di figure femminili, di militanti e di intellettuali per conquistare e detenere il potere», spiega la storica Patrizia Dogliani. Fanny rispondeva evidentemente a queste caratteristiche.
Manifesto di reclutamento per la X Flottiglia MAS. 1941
Foto: The Granger Collection, New York / Cordon Press
Nel 1937 le fu concesso un viaggio documentaristico ad Addis Abeba, capitale dell’Africa Orientale Italiana. Al ritorno in patria si aggiudicò il primo posto al premio “Poeti di Mussolini” con una lirica che inneggiava al dolore di una madre di un soldato caduto. Tuttavia, come molte altre attiviste della prima ora, Fanny aveva agognato un avvenire decisamente diverso, possibilmente accanto allo stesso duce, la cui opera ne aveva segnato indelebilmente le vite: «Avendo combattuto nelle piazze con le Vostre Camicie Nere, ho fatto con loro la Marcia su Roma, e dopo di allora non ho chiesto più nulla tranne il privilegio – che non mi fu concesso – di potere in una maniera qualunque partecipare alla guerra per l’Impero e a quella di Spagna». Più volte Fanny aveva scritto a Mussolini per chiedergli di essere arruolata nelle forze armate perché «una donna potrebbe, una volta arrivata a terra, rendere servigi assai più importanti di un uomo, in quanto sfuggirebbe di più all’azione di un nemico». Ma la netta separazione dei ruoli e l’introduzione di limiti ben precisi alla partecipazione femminile alle fasi belliche erano stati già sanciti da Mussolini nel 1925 in parlamento con la celebre frase: «La guerra sta all’uomo come la maternità alla donna». Conscia di tale invalicabile limite, senza rancori, Fanny scriveva: «La gioia suprema sarebbe quella di dare la mia vita per la Vostra Vittoria, ma se il privilegio non mi sarà riserbato, lasciate che almeno lavori per la Vostra Vittoria. Ai Vostri ordini, Duce! Fanny Dini».
Per saperne di più
Fasciste. Donne in marcia verso Roma. 1919-1922. Angelo Piero Cappello, Ianieri Edizioni, 2022.
Le donne nel regime fascista. Victoria De Grazia, Marsilio, 1993.
Il fascismo degli italiani. Patrizia Dogliani, UTET, 2008.
Donne sfilano durante una parata militare fascista. 1939 circa
Foto: Alinari / Cordon Press
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