Anno 314 d.C. Il grande imperatore Costantino I, che ha sconfitto il suo rivale Massenzio nella Battaglia di Ponte Milvio e si è impadronito della metà occidentale dell’impero romano rendendo finalmente lecita la religione cristiana dopo anni di persecuzioni, si ammala di lebbra. Sembra spacciato, non c’è nessuno che possa aiutarlo. I medici sono impotenti. Ma ecco comparire a corte il vescovo di Roma, papa Silvestro I. Il prelato compie il miracolo e l’imperatore guarisce. È il Signore che, attraverso la sua mano, salva la vita dell’uomo che ha difeso il cristianesimo.
Costantino colpito dalla lebbra. III secolo d.C. Oratorio di San Silvestro. Basilica dei Santi Quattro Coronati, Roma
Foto: Bridgeman
E allora, sull’onda della gratitudine, Costantino fa un dono straordinario al papa e ai suoi successori: l’impero. Proprio così: il sovrano decide che alla sua morte il possesso effettivo dell’impero venga conferito ai vescovi di Roma, anche se l’esercizio del potere sarà affidato ai suoi discendenti e poi ai loro successori. Una saga fantasy? Niente affatto. La storiella appena raccontata era quanto la gente del Medioevo riteneva fosse accaduto davvero.
O almeno lo si pensava a partire dall’VIII secolo d.C., quando la vicenda iniziò a diventare di dominio pubblico. E nei secoli successivi, sarebbe tornata puntualmente agli onori della cronaca ogni volta – ed erano tante – che papi e imperatori entravano in contrasto sul tema della supremazia fra Chiesa e stato, fra potere spirituale e potere temporale.
L’oratorio di San Silvestro, presso la basilica dei Santi Quattro Coronati a Roma, ospita appunto una serie di affreschi, risalenti alla metà del XIII secolo, che la raffigurano. Peccato che fosse nient’altro che un’invenzione, appunto, ideata e redatta nella cancelleria papale in qualche momento tra il 750 e l’850 d.C., in quell’età oscura che concepì anche altre leggende, come quella della papessa Giovanna, proprio per giustificare le pretese temporali del papato. Bisogna inquadrare il contesto storico per capire per quale ragione i pontefici si fossero spinti a tanto.
Testa dell’imperatore Costantino. Musei capitolini, Roma
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Nasce il mito
Con l’eclissarsi dell’impero romano d’Occidente e l’indebolimento del successivo impero bizantino, sempre meno in gradod’intervenire nelle faccende italiane, il papato era rimasto l’unico vero rappresentante, nella penisola, di un’autorità autoctona che non derivasse dalla forza della conquista, come quella di goti e longobardi. E proprio perché circondati dai possedimenti dei longobardi, i papi erano arrivati a chiedere l’aiuto dei più potenti tra i nobili franchi d’oltralpe, quei maggiordomi di palazzo di cui avevano favorito l’ascesa al trono in cambio di protezione contro gli invasori germanici. Papa Zaccaria, infatti, confermò a Pipino il Breve la corona del regno franco, sancendo l’uscita di scena dei re Merovingi, ma il suo successore Leone III andò perfino oltre, assegnando al figlio Carlo Magno la corona d’imperatore e resuscitando così l’antico impero romano, decaduto in Occidente da oltre tre secoli. Ma adesso, con una trovata geniale, il papa vi anteponeva l’aggettivo “sacro”, collocandolo così sotto la propria autorità in quanto vicario di Cristo, e trasformando l’imperatore in un suo sottoposto.
Patti chiari, amicizia lunga? Niente affatto: ben presto fu evidente che gli imperatori tendevano a considerare il potere imperiale una diretta emanazione della volontà divina, e quindi a considerare superflua l’intermediazione pretesa dal papa, perfino nella nomina dei vescovi. Gli scompensi di questa contraddizione sarebbero emersi in modo drammatico dopo il primo millennio, con la lotta per le investiture, cioè la disputa per la nomina dei vescovi da parte dei potenti laici, le guerre tra i due partiti dei guelfi (sostenitori del papa) e dei ghibellini (sostenitori dell’imperatore), con papi e antipapi che si contendevano la legittimità del potere ecclesiastico, le guerre civili e gli assalti alla “città eterna” da parte dei sovrani germanici.
La donazione rappresentata in un affresco dell’oratorio di San Silvestro. Basilica dei Santi Quattro Coronati, Roma
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Ma per il momento, all’atto della creazione del Sacro romano impero, i pontefici ritennero doveroso cautelarsi creando ad arte un documento, la cosiddetta “Donazione di Costantino” (Constitutum Constantini) che, a scanso di equivoci, li rendeva effettivi padroni dell’impero, anche qualora gli imperatori avessero voluto considerarsi tali senza la loro approvazione.
Il documento fu redatto in una versione latina e una greca ed è diviso in due parti: i primi dieci paragrafi costituiscono la Confessio, dove viene narrata la vicenda che portò alla donazione; i successivi dieci sono la Donatio vera e propria, ovvero la lunga serie di attribuzioni che Costantino opera a vantaggio del clero, del papa e dei suoi successori.
Il primo detrattore
Ovviamente, il documento disorientò gli imperatori e li rese sospettosi: come mai era saltato fuori solo mezzo millennio dopo la sua redazione? Ma il primo a metterne davvero in dubbio l’autenticità fu, intorno all’anno mille, il giovane sovrano Ottone III, che coltivava il sogno di una Renovatio imperii riunendo sotto il suo scettro tutti i territori che un tempo avevano fatto parte dell’antico impero romano. Il sovrano morì molto giovane, ma fece in tempo a denunciare la falsità della donazione, sostenendo di sapere chi l’aveva redatta: un tale diacono, diceva, chiamato Giovanni “dalle dita mozze”.
Si trattò però di una voce sostanzialmente isolata e nei secoli seguenti il credito del documento andò perfino consolidandosi, contestualmente con l’esasperazione della lotta tra partito imperiale e partito papale, che raggiunse i suoi picchi durante i regni di Federico Barbarossa, Federico II, Enrico VII di Lussemburgo e Ludovico il Bavaro.
La donatio constantini in una traduzione all’olandese di Lutero
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Perfino Dante, ardente sostenitore di Enrico VII, non arrivò mai a mettere in dubbio l’autenticità della donazione, quanto piuttosto il suo valore giuridico: secondo lui, un imperatore non poteva alienare le proprietà che gli erano state trasmesse in eredità da Augusto attraverso i suoi successori; tanto meno il papa poteva entrarne in possesso senza contravvenire all’obbligo di povertà della Chiesa.
La truffa svelata
Perché qualcuno avesse il fegato di definirla un vero e proprio falso e di svelare la truffa si dovette attendere l’Umanesimo, quando il recupero dell’età classica latina e greca portò alla contestuale restituzione della verità storica attraverso lo studio dei documenti. Così, un umanista insigne come Lorenzo Valla poté dimostrare tutti gli anacronismi contenuti nel testo del documento, che presentava vistose anomalie, come il riferimento a Costantinopoli, che sarebbe stata fondata una quindicina di anni dopo la presunta stesura della donazione, l’uso di termini impropri per l’epoca, come “feudo”, o la stessa lingua in cui fu redatto, un latino barbarico molto più tardo dell’epoca costantiniana.
Nel passaggio in cui Costantino lascia al papa Silvestro l’impero, questo viene descritto in termini generici e indeterminati che, secondo l’umanista Valla, erano un’ulteriore prova dell’ignoranza del redattore, il quale non poteva quindi essere l’imperatore. «E affinché la dignità pontificale non sia svilita, ma sia onorata più della dignità e della potenza della gloria dell’impero terreno, ecco che, trasferendo e lasciando al più volte nominato beatissimo pontefice [...] e alla potestà e giurisdizione dei pontefici suoi successori, il nostro palazzo e tutte le province, luoghi e città di Roma, dell’Italia, e delle regioni occidentali, determiniamo, con decreto imperiale destinato a valere in perpetuo, in virtù di questo nostro editto e prammatico costituto, che essi ne possano disporre, e concediamo che restino sottoposti al diritto della Santa Romana Chiesa».
Tuttavia, il De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio, redatto nel 1440, poté essere pubblicato solo sessant’anni dopo la morte di Valla, nel 1517, per giunta esclusivamente tra i protestanti. La Chiesa cattolica, invece, lo inserì nell’Indice dei libri proibiti nel corso del Concilio di Trento e, da allora, non ha mai ammesso ufficialmente che la donazione fosse un falso, continuando per secoli a usarla, nelle tre lingue in cui ci è pervenuta, ovvero il latino (la versione più completa), il greco e lo slavo, per sostenere le sue aspirazioni temporali.