Il 28 gennaio del 1972, a Milano, muore di cancro Dino Buzzati, dopo essersi sottoposto a «un’operazione non risolutiva [...] a causa di una subdola, misteriosa e rara malattia il cui ultimo caso sicuramente accertato risale alla seconda dinastia dei Gorgonidi». Sono queste le parole scritte al collega e critico Geno Pampaloni, da cui traspaiono l’attenzione all’immaginifico e lo spirito ironico di Buzzati.
Scrittore e pittore, giornalista, librettista e poeta, il vincitore del prestigioso premio Strega del 1958 era nato a San Pellegrino di Belluno sessantasei anni prima. Nel corso della sua esistenza sperimenta diversi campi dell’arte, sempre con delicato umorismo e incredibile profondità, lasciando a caratteri e pennellate il compito di sublimare le intime inquietudini e le vicende personali. Del resto, come afferma il romanziere Guido Piovene, «[Buzzati] non perse mai l’istinto di trasformare in favola anche i fatti dei quali era lui stesso il protagonista».
Dino Buzzati, ritratto
Foto: Pubblico dominio
Montagne, guerra e carta
La vita di Buzzati si svolge all’ombra degli eventi che hanno scosso il XX secolo. Nato il 16 ottobre 1906 a Belluno, l’autore è figlio di Giulio Cesare Buzzati, stimato accademico e giurista, morto precocemente dello stesso tumore che avrebbe segnato la fine del figlio, nonché fratello dell’altrettanto noto genetista e biologo Adriano Buzzati Traverso.
Trasferitosi giovane a Milano per via del lavoro paterno, Buzzati rimane sempre legato al panorama di Belluno e dell’area circostante, tanto che nel tempo libero ama salire in vetta in compagnia degli amici e fa delle montagne lo sfondo e le protagoniste di molte sue opere, tra cui il primo romanzo, Barnabo delle montagne (1933). In quest'opera, storia del giovane guardaboschi Barnabo portata sugli schermi nel 1994, già si profilano i temi cari a Buzzati: le vette cristalline e silenziose, la solitudine dell’uomo, l’attesa metafisica e la paura della morte.
Veduta di Belluno
Foto: Seval, CC BY-SA 3.0
Quando Buzzati scrive Barnabo si è già laureato in legge a Milano e, dettaglio fondamentale, è stato assunto dal Corriere della Sera come addetto alla cronaca. Il lavoro di giornalista diviene il ponte per nuove scoperte e ispirazioni, ma si rivela pure una fonte di malessere e d’insofferenza. Lo scrittore non lascerà più il quotidiano, assumendo di volta in volta incarichi diversi. Proprio dietro l’angoscia e la noia di una professione monotona, qual è per lui quella del giornalista, dietro la ripetitività sospesa della routine fermentano man mano i germi del suo grande romanzo, Il deserto dei Tartari (1940), il cui primo titolo è La fortezza. Difatti attorno all’enigmatica fortificazione nel nulla geografico, la fortezza Bastiani – ispirata al lunare rifugio Pedrotti della Rosetta, sulle Pale di San Martino –, ruotano l’intera vicenda dell’opera e l’esistenza dei suoi protagonisti, in primis il tenente Giovanni Drogo.
Sospeso nell’incertezza di una vita che scivola via e di un nemico, i tartari, che mai sembra palesarsi, Drogo è l’emblema dell’uomo che, nel ripetersi dei giorni, attende uno scopo – in questo caso la guerra – che possa dare un senso alla propria vita. Libro amaro, ma anche ironico, Il deserto dei Tartari è un testo fondamentale per molti aspetti, dallo stile alle riflessioni esistenziali, dalla sconcertante nitidezza al mistero fantastico che lo permea. Chi non si è riconosciuto in Drogo o non ha visto scorrere uguali giorni e periodi dell’esistenza, dibattendosi nella ricerca spasmodica di un senso e, insieme, rassegnandosi alla mancanza di questo? Ecco la grandezza del romanzo di Buzzati, che rimane feroce sino alla conclusione, quando finalmente i tanto attesi tartari sopraggiungono dopo decenni di speranze. Per Drogo potrebbe essere il momento dell’azione, ma si ammala ed è mandato a morire lontano dalla fortezza e dallo scontro epico.
Vista della città di Bam in Iran, la fortezza Bastiani del film "Il deserto dei Tartari"
Foto: Benutzer, CC BY-SA 3.0
Se alla base del romanzo sicuramente vi è – per ammissione dello stesso Buzzati – la mancanza di stimoli della redazione giornalistica, dall’altro si possono riscontrare tematiche o ambientazioni allora attuali, come quella militare. Non va dimenticato che l’Italia è da anni alle prese con ambizioni coloniali e che su di essa incombe il vento della Seconda guerra mondiale.
Dopo aver affidato il manoscritto a un amico perché lo consegni all’editore, nel 1939 Buzzati parte alla volta di Addis Abeba, in qualità di corrispondente di guerra. Assiste a più battaglie tra il regio esercito fascista e il British Army e ne dà un resoconto vivido, come vivido e fedele alla cronaca, ma ugualmente intenso, è l’articolo scritto in occasione delle ultime lotte partigiane a Milano, prima della Liberazione del 25 aprile. I tartari sono stati sconfitti.
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Dopo la guerra
Nel dopoguerra Buzzati continua a comporre e a dipingere negli spazi tra il giornalismo e la montagna. La fama conquistata grazie a Il deserto dei Tartari gli consente nuove collaborazioni e sfide: racconti e romanzi, adattamenti radiofonici e televisivi, mostre pittoriche e reportage di cronaca, come quello per il Giro d’Italia del 1949. Oltre a dipingere e scrivere, viaggia, sempre grazie al Corriere, a Tokyo, a Gerusalemme, a Praga, dove visita la città e le case di Frank Kafka, autore al quale è stato sempre avvicinato per le tematiche esistenziali e oniriche e da cui si è invece sempre detto lontano.
Dino Buzzati in via Solferino, la storica sede del giornale ‘Il Corriere della Sera’
Foto: Pubblico dominio
Assillato dallo scorrere fugace del tempo, dalla paura della morte e della malattia, Buzzati riversa nelle numerose opere le apprensioni sia esistenziali sia sociali, criticando con ironia le placidità borghesi, la produttività imperante e lo spirito tecnologico del dopoguerra. Già nel libro vincitore dello Strega, Sessanta racconti (1958), l’autore condensa alcuni interrogativi sulla modernità, poi esplosi nel romanzo Il grande ritratto. Stavolta i paesaggi spettrali e le “fortezze” scientifiche sono il contorno della rappresentazione futuristica, e quanto mai attuale, di una macchina vivente, una sorta di creatura robotica con cui un grande scienziato, Endriade, vorrebbe riprodurre la prima moglie, ormai morta. Romanzo cibernetico, visionario, s’interroga sui limiti e le conquiste della ricerca.
Ma l’interesse curioso di Buzzati non si arresta qui. Con altre opere, come il più noto Un amore (1963) riflette sui sentimenti, appunto, in un affresco a tutto tondo dell’animo umano e, ancora una volta, dell’attesa. Stavolta della donna amata e dell’amore, ossia di una delle molte sfumature dell’esistenza. Perché, nello sfogliare e rendere conto della vasta produzione di Buzzati, della sua vita ma anche della sua morte, si ha come l’impressione che, al pari di un alpinista, lo scrittore sia salito sulle cime più alte della sensibilità umana, abbia percorso doline e scarpate dell’animo, cercando un appiglio laddove i crepacci mostravano il freddo vuoto, rincorrendo un rifugio sospeso, come quello delle Pale di San Martino. Solitario, vivace, Buzzati non si è tirato indietro a nessuna sfida letteraria, sporcando gli stivali nella guerra, nell’amore e nella morte, trattenendo il fiato e preparandosi, preparandoci, con un sorriso alla grande scalata che è la vita.
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