Si dice che ogni popolo ha il suo senso dell’umorismo, non sempre facile da capire per gli altri. Lo spirito caustico degli antichi romani rifletteva il carattere insolente e sarcastico di quella che in origine era una comunità di contadini e soldati. Il cosiddetto italum acetum (“aceto italico”) costituiva l’altra faccia della gravitas, la rispettabile serietà che si sforzavano di trasmettere i cittadini dell’élite.
Dopo essere andato in rovina, Plauto fu costretto a lavorare per qualche tempo come mugnaio. Qui legge una delle sue opere in un mulino. Olio di Camillo Miola. 1864
Foto: Bridgeman / Aci
I romani davano un tocco umoristico anche al terzo componente del nome, il cognome, che spesso traeva origine dal riferimento a qualche caratteristica di famiglia. Ad esempio, il nome completo del famoso poeta Ovidio era Publio Ovidio Nasone. Cicerone, invece, viene da cicer, “cece”, forse perché i suoi antenati coltivavano ceci oppure perché il capostipite aveva un’escrescenza sul volto che richiamava la forma del legume. Tra i cognomi particolarmente curiosi troviamo Bruto (“massiccio”), Ruffo (“dai capelli rossi”), Capitone (“dalla testa grande”) e Strabone (“guercio”).
Imperatori grotteschi
Anche agli imperatori venivano affibbiati nomignoli scherzosi. Quando Tiberio era ancora un soldato i suoi commilitoni lo prendevano in giro storpiando il suo nome, Tiberius Claudius Nero, in Biberius Caldius Mero, tre doppi sensi che alludevano alla sua natura di gran bevitore, amante del vino caldo e puro (merum).
I legionari adoravano farsi beffe dei generali nei carmina triumphalia, i canti che accompagnavano le sfilate degli eserciti vittoriosi attraverso il centro di Roma. Durante la parata trionfale del 46 a.C. Giulio Cesare dovette sopportare gli sberleffi dei suoi soldati, che intonavano: «Cittadini, sorvegliate le vostre donne: vi portiamo il calvo adultero», in allusione alla vita dissoluta del loro comandante e alla sua pronunciata calvizie. Giravano inoltre riferimenti maliziosi alle sue relazioni con il re di Bitinia: «Cesare sottomise le Gallie, Nicomede sottomise Cesare». I toni burleschi che caratterizzavano questi versi avevano probabilmente anche lo scopo di evitare gli eccessi di superbia del generale vincitore.
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Cicerone diceva che in una città così pettegola nessuno era al riparo dalle maldicenze. Erano proprio le persone dell’alta società come lui, presunte depositarie della gravitas, a riversare il loro humor tanto nei discorsi pubblici come nella vita privata. Quando vide suo genero Lentulo, che era basso di statura, con una lunga spada appesa in vita, Cicerone esclamò: «Chi ha legato mio genero a quel ferro?». A proposito di una matrona romana piuttosto in là con gli anni che dichiarava di averne solo una trentina, commentò: «Dev’essere senz’altro vero, sono già vent’anni che glielo sento ripetere».
Anche l’imperatore Augusto aveva uno spiccato senso dell’umorismo. Quando il console Galba, che era gobbo, lo invitò a correggerlo nel caso in cui avesse commesso degli errori, Augusto gli rispose che avrebbe anche potuto correggerlo, ma non certo raddrizzarlo.
Scena di una commedia di Plauto di Plauto con il 'servus callidus' (autore di beffe) a Pompei
Foto: Granger / Album
Le prese in giro non erano sempre ben ricevute dai destinatari. Cornelio Fido, genero di Ovidio, si mise a piangere in senato perché qualcuno gli aveva dato dello «struzzo spelacchiato».
A volte ridere in pubblico poteva essere pericoloso. Nel 192 d.C. lo storico Cassio Dione si trovava con alcuni colleghi senatori al Colosseo, dove si svolgeva un’esibizione dell’eccentrico imperatore Commodo. A un certo punto il sovrano romano uccise uno struzzo al centro dell’arena, lo decapitò e si girò verso di loro facendogli capire che avrebbero potuto fare la stessa fine. La scena provocò una certa ilarità tra i senatori, ma per evitare di scoppiare a ridere apertamente Dione si mise a masticare delle foglie di alloro della sua corona, prontamente imitato dai compagni.
Comici di palazzo
Presso la corte imperiale non mancavano i buffoni per il divertimento dei regnanti. Il prediletto di Augusto e del suo circolo era un comico di nome Galba. Tiberio, dal canto suo, annoverava un nano tra i suoi giullari. Domiziano, invece, assisteva agli spettacoli dei gladiatori in compagnia di un giovane dal cranio piccolo e deforme, che si sedeva ai suoi piedi vestito di rosso e conversava con lui tra il serio e il faceto. All’epoca di Traiano a incaricarsi dei motti di spirito era un certo Capitolino che, secondo Marziale, era ancora più divertente di Galba.
Nano buffone. Statuetta di terracotta proveniente da Ercolano. I secolo
Foto: Prisma / Album
Anche le menomazioni fisiche e mentali potevano essere oggetto di scherno, ma per qualcuno c’erano dei limiti. In una delle sue lettere a Lucilio, Seneca cita una certa Arpaste, una «serva matta» ereditata dalla prima moglie, «che non sa di essere cieca [...] e dice che la casa è buia». Il filosofo afferma con grande umanità che è contrario a ridere delle miserie della gente e aggiunge: «Se voglio divertirmi con un pagliaccio, non devo cercare lontano: rido di me».
L’umorismo era il protagonista indiscusso delle conversazioni in strada e in taverna. Ne sono una testimonianza i graffiti sui muri degli edifici di Pompei, dove abbondano scherzi, invettive e caricature di persone reali. I clienti scontenti di una pensione scrivono per esempio: «Abbiamo pisciato a letto. Lo confesso, ospite, abbiamo sbagliato. Ma se mi chiedi perché, rispondo: non c’era un orinale».
Quando Ventidio Basso raggiunse una delle più alte cariche della magistratura, la gente ripensò con stupore alle sue origini di mulattiere. Qualcuno scrisse per le vie di Roma: «Accorrete, àuguri tutti e aruspici! È avvenuto proprio adesso un prodigio straordinario: quello che strigliava i muli è stato eletto console!».
Tracce di umorismo popolare sono visibili anche in alcuni epigrammi satirici di Marziale, famosi per le loro chiuse brevi e incisive. Il poeta spagnolo amava prendere di mira con il suo spirito caustico i difetti fisici e caratteriali dei suoi contemporanei: «“Quinto ama Taide”. “Taide quale?” “Taide la guercia”. “A Taide manca un occhio, a Quinto tutti e due”».
Antologia di barzellette
Ciononostante, bisogna aspettare il IV, V secolo d.C. per trovare una vera e propria raccolta di barzellette. È scritta in greco e si intitola Philogelos, che letteralmente significa “l’amante della risata”. L’antologia contiene circa 270 storielle di vario tipo. Alcune hanno come protagonisti gli abitanti di Abdera (nella Grecia settentrionale), anticamente considerati gli scemi per antonomasia, insieme ai cumani (anche detti poloviciani). Ma compaiono anche eunuchi, falsi indovini e misogini. Ecco un esempio che dimostra come certe forme di umorismo siano una costante di ogni epoca. Un indovino incompetente predice a un uomo il suo futuro e gli dice che non potrà avere figli. Quando l’uomo ribatte di averne già sette, l’indovino replica: «Ma li hai guardati bene?».
L’ambasciatore romano Lucio Postumio, inviato nella colonia greca di Taranto, fu ridicolizzato pubblicamente durante un suo intervento perché non parlava bene il greco. Incisione. XX secolo
Foto: Bridgeman / Aci
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