Nel 1714 al trono britannico ascese un principe elettore tedesco, Giorgio I di Hannover, unico erede di fede protestante della regina Anna Stuart, morta senza discendenti diretti. Il principe, che conosceva ben poco l’inglese e non sarebbe mai stato particolarmente amato dai sudditi britannici, prima di tutto licenziò i ministri in carica e, nel 1715, indisse elezioni per la designazione dei nuovi membri del parlamento: un atto inimmaginabile in ogni altro Paese europeo.
Caricatura di un candidato whig, sir Francis Burdett, che perse le elezioni per soli cinque voti. James Gillray, 1804
Foto: Photoaisa
Nella Gran Bretagna del XVIII secolo le elezioni avvenivano con grande regolarità da quando, nel 1707, l’Act of Union aveva sancito l’unione definitiva di Inghilterra e Scozia e la creazione del Regno Unito di Gran Bretagna. Poi, con l’approvazione del Septennial Act nel 1716, la durata della legislatura fu prolungata da tre a sette anni, un lasso di tempo che sarebbe stato quasi sempre rispettato. Ad affrontarsi erano due opposti schieramenti politici, quello dei tories (radicati nelle campagne e legati alla Chiesa anglicana) e quello dei whigs (legati al ceto mercantile e sostenitori della libertà religiosa).
I cittadini britannici si abituarono dunque all’idea di poter condizionare con il proprio voto il governo del Paese. I ministri nominati dal re, infatti, dovevano contare sull’appoggio della maggioranza parlamentare per portare avanti la loro azione politica. Non era così negli altri stati d’Europa, con monarchie assolute svincolate da qualsiasi forma di consenso.
Il voto, privilegio di pochi
Il sistema elettorale britannico, rimasto in vigore fino al Reform Act del 1832, distingueva tra i deputati delle contee e i rappresentanti delle città e dei borghi: i primi erano eletti dai proprietari terrieri; i secondi dai membri delle corporazioni. Naturalmente, il sistema aveva numerosi limiti, se paragonato a quello delle odierne democrazie. Innanzitutto, oltre che alle donne, il voto era precluso alla gran parte della popolazione maschile: si stima che solo il 15% dei maschi adulti beneficiasse di tale diritto. Nelle zone rurali, la legge elettorale riconosceva il diritto di voto solo ai proprietari di terre che fruttassero una rendita di almeno quaranta scellini all’anno in Inghilterra e Galles e di cento sterline in Scozia; i semplici braccianti ne erano dunque automaticamente esclusi.
Scheda di votazione del 1768. Le colonne corrispondono ai tre candidati
Foto: Bridgeman
Vi erano poi dodici borghi (boroughs), tra cui Westminster, che godevano del suffragio universale maschile, ma uno di questi (Gatton nel Surrey), per esempio, era composto di sole sei case e aveva un unico elettore. Inoltre, era previsto che ciascuno dei collegi elettorali – i cui confini erano stati stabiliti nel 1660 – designasse due deputati, senza però alcuna relazione con la densità demografica di ciascuna area e con la sua evoluzione nel tempo. Così, accadeva che le nuove città industriali quali Birmingham, Manchester e Liverpool, benché molto popolose, fossero prive di rappresentanti, mentre vi erano distretti pressoché disabitati, i cosiddetti rotten boroughs, “borghi putridi”, che continuavano a inviare al parlamento un numero fisso di deputati. Era il caso di Old Sarum, con soli sei elettori, o di Dunwich, un borgo abbandonato dopo essere sprofondato sotto il livello del mare.
In più, se il voto era riservato solo ai sudditi benestanti, a maggior ragione le candidature venivano scelte in base alle capacità finanziarie degli aspiranti membri del parlamento. Spesso, era semplicemente l’uomo più ricco del distretto a presentarsi come candidato naturale; tuttavia, se ve n’erano più d’uno, si rendeva necessaria l’organizzazione di una campagna elettorale, che poteva rivelarsi molto onerosa.
Candidati in lizza
Gli aspiranti parlamentari si avvalevano dell’apporto di un certo numero di sostenitori, incaricati di mobilitare gli elettori. Nel 1705 un agente al servizio di due candidati tories scriveva a uno di loro, sir Justinian Isham, a proposito delle sue prospettive elettorali nella contea del Northamptonshire: «Nelle ultime elezioni, Everton [una località della contea] disponeva di trentaquattro voti, lei ne prese solo sei e Thomas Cartwrigh [il suo collega tory] nove, ma adesso, secondo le mie stime, insieme ne otterrete trenta. Badby e Newnham [altre due località] andranno bene, così spero che riusciremo a conquistare almeno un centinaio dei voti che ci furono sfavorevoli nelle ultime elezioni».
Il giorno delle votazioni. Opera di William Hogarth, 1754. Sir John Soane’s Museum, Londra
Foto: Bridgeman / Index
L’acquisizione dei voti richiedeva tempo, fondi e infinita pazienza. Così come avviene oggi, si creavano slogan elettorali e venivano distribuiti opuscoli e circolari a stampa, talvolta personalizzate, vere e proprie antesignane dei volantini elettorali.
In ogni caso, chi intendeva assicurarsi la vittoria doveva effettuare in prima persona la campagna elettorale e, peraltro, né gli esponenti dei whigs né quelli dei tories disdegnavano il ricorso a pratiche clientelari, che prevedevano la promessa di favori e denaro o la distribuzione di incarichi con possibilità di carriere lucrative. Del resto, è indiscutibile che prima del Reform Act del 1832 l’elettorato potesse essere soggetto a svariate forme di corruzione e che alcune circoscrizioni fossero interamente controllate dal patronage dei grandi proprietari terrieri o dall’azione della Corona.
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Discorsi e votazioni
Non mancavano naturalmente accesi discorsi pronunciati dalle tribune. Particolarmente abile nell’oratoria fu sir Robert Walpole, capo del partito whig e primo ministro per oltre un ventennio (1721-42). Nel 1713 egli si appellò direttamente ai suoi elettori nella cittadina di King’s Lynn, dichiarando con solennità: «Lotteremo duramente per la nostra religione e la nostra libertà»; proclami simili figuravano poi su locandine e manifesti. I componenti di ciascun partito, inoltre, portavano con sé dei simboli caratteristici (foglie di quercia i tories, nastri di lana i whigs) e avevano persino un colore distintivo: azzurro i tories, arancione i whigs.
Robert Walpole, primo ministro della Gran Bretagna (1721-1742). XVIII secolo
Foto: Album
Le elezioni potevano durare diversi giorni e il voto era pubblico (il suffragio segreto fu introdotto in Gran Bretagna solo nel 1872). Poiché quella inglese era una società ancora prevalentemente rurale, i futuri deputati si premuravano di far giungere ai centri urbani sede di seggio anche gli elettori provenienti dalle zone più remote delle contee. A questi ultimi, spesso costretti a battere strade in pessimo stato, venivano pagate le spese di viaggio e di soggiorno in città fino al loro ritorno a casa. Tutto ciò comportava, ovviamente, un sensibile dispendio di denaro.
«Lotteremo duramente per la nostra religione e la nostra libertà», proclamò Walpole in un discorso elettorale
Nel XVIII secolo lo spoglio dei voti richiedeva molto più tempo rispetto ai giorni nostri, ma di certo l’aspettativa non doveva essere inferiore. Nel 1705 un esponente whig informava così un amico degli esiti elettorali: «Sono stati eletti 385 deputati, dei quali trentadue tories». Si usava persino avanzare una sorta di proiezioni sulla base di risultati parziali: «Non sono ancora state stampate le liste dei deputati, ma pare che i whigs e i tories abbiano raggiunto la parità», scriveva un altro osservatore. Accuse reciproche di frodi e brogli, con una vasta eco sulla stampa, e spesso non prive di fondamento, erano del resto all’ordine del giorno. Eppure, con tutti i suoi limiti, il modello inglese si pone storicamente come il progenitore di tutti i sistemi elettorali dell’età contemporanea.
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Rivoluzioni silenziose. L’evoluzione costituzionale della Gran Bretagna tra la Glorious Revolution e il Great Reform Act. Ugo Bruschi, Maggioli Editore, Rimini, 2014