La civiltà dell'Indo, i misteri di un popolo dimenticato

Nella regione del subcontinente indiano prosperò per quasi 1000 anni una cultura agricola e urbanizzata, fiorita in ampie città spesso prive di mura e segnata da una scomparsa improvvisa e misteriosa

La prospera civiltà della valle dell’Indo crebbe quasi parallelamente alle grandi civiltà della Mesopotamia e dell’Egitto e per il suo sviluppo economico, tecnologico e culturale può essere accostata a queste ultime, di poco più antiche. L’origine, così come la fine, di questa cultura è ancora controversa e oscura, tanto più che la sua scrittura permane indecifrata. Probabilmente tale società, a cui si devono le prime città del subcontinente indiano, sorse dall’evoluzione delle comunità agricole stanziatesi in prossimità dell’Indo e dei suoi affluenti nel periodo neolitico. Così Harappa, che intorno al 3500 a.C. era un piccolo villaggio sulle sponde del fiume Ravi, si ampliò fino a diventare mille anni più tardi una vera e propria metropoli estesa su un’area di oltre 150 ettari. Su questa trasformazione influirono senz’altro le relazioni intessute con il mondo urbano della Mesopotamia.

I contatti commerciali intrattenuti con i sumeri favorirono uno sviluppo economico che rese sempre più indispensabili le città quali nuclei di produzione e interscambio; grazie a tali rapporti si diffusero forse anche modelli di ordinamento sociale e tecniche costruttive, fondate sia nella valle dell’Indo sia in Mesopotamia sull’impiego di mattoni di fango. In ogni caso, quale che sia stata la sua origine, non c’è dubbio che tra il 2600 e il 1700 a.C. fiorì nella valle dell’Indo una civiltà tecnologicamente avanzata, estesa su un vasto territorio e basata su un’organizzazione che faceva perno su alcune grandi città.

Statuetta in steatite da Mohenjo-Daro detta ”re-sacerdote”. Museo nazionale di Karachi

Statuetta in steatite da Mohenjo-Daro detta ”re-sacerdote”. Museo nazionale di Karachi

Foto: James P. Blair / NGS

Grandi città pianificate

Le città sorte nella valle dell’Indo rivestivano un ruolo difensivo ma svolgevano anche funzioni di polo amministrativo, economico-commerciale e religioso. Si trattava probabilmente di un’organizzazione complessa, dove le città più grandi controllavano i centri minori. Sono note cinque metropoli, tra cui Harappa e Mohenjo-Daro, le località più importanti e le prime a essere riportate alla luce, a partire dal 1922, dopo millenni, nell’odierno Pakistan; vi era inoltre un centinaio di insediamenti più piccoli situati presso le rive dell’Indo e lungo il corso del fiume Hakra-Ghaggar (il Sarasvati del mito indiano), oggi prosciugato.

Questa antica civiltà pone una serie di enigmi agli archeologi. Le planimetrie delle città, edificate principalmente con mattoni cotti, sembrano essersi conformate a precisi ed evoluti principi di urbanistica: le strade, disposte secondo un tracciato regolare, erano provviste di canali di drenaggio coperti per il deflusso delle acque di scarico; non mancava inoltre un perfezionato sistema di rifornimento idrico e di fognatura e le case più ricche erano dotate di pozzi privati per l’acqua e stanze da bagno.

In genere gli insediamenti apparivano suddivisi in due settori: una città bassa a sudest e una cittadella fortificata a nordovest, sviluppata su un imponente sistema di piattaforme rialzate in mattoni crudi che la proteggevano dalle piene.

Il Grande Bagno di Mohenjo-Daro: una vasca rettangolare, lunga 12m e larga 7, con una profondità di 2,4m, realizzata in mattoni cotti rivestiti di bitume

Il Grande Bagno di Mohenjo-Daro: una vasca rettangolare, lunga 12m e larga 7, con una profondità di 2,4m, realizzata in mattoni cotti rivestiti di bitume

Foto: James L. Stanfiel / NGS

L’acropoli era forse destinata ad accogliere architetture monumentali, residenze di élite o complessi di carattere pubblico e religioso, benché le evidenze archeologiche siano insufficienti ad avvalorare tale ipotesi. Tuttavia nella cittadella di Mohenjo-Daro sono stati rinvenuti enormi granai oltre a una grande piscina rettangolare accessibile tramite scalinate e circondata da varie stanze, verosimilmente adibite a spogliatoi. L’impiego di questa struttura, conosciuta come il Grande Bagno, per rituali di abluzione e purificazione viene suggerita soprattutto in base all’importanza che simili pratiche catartiche avrebbero successivamente assunto nella tradizione induista. In ogni caso, non sono riemerse tracce del tempio che con ogni probabilità doveva essere annesso alla grande piscina.

Fuori dalle mura della cittadella, gli edifici si raggruppavano ordinatamente in spazi differenziati e riservati a usi distinti. Le aree destinate a ospitare le abitazioni erano delimitate da strade rettilinee che s’incrociavano ad angolo quasi retto ed erano suddivise in blocchi: ognuno di essi era dotato di un pozzo comune e di una serie di canalette di drenaggio, confluenti in un unico grande sistema fognario.

Ogni zona della città era riservata a un tipo di attività ben preciso, con veri e propri quartieri specializzati che accoglievano le botteghe di ceramisti, tessitori o intagliatori di sigilli. I loro abitanti erano oggetto di una certa considerazione sociale e beneficiavano di una situazione di stabilità e benessere; si può supporre inoltre che le vie principali fossero costeggiate di negozi e bazar.

I migliori esempi dell’artigianato dell’Indo sono forse le lunghe perle cilindriche di corniola

I migliori esempi dell’artigianato dell’Indo sono forse le lunghe perle cilindriche di corniola

Foto: Dea / Album

Le regole fisse e rigorose in materia urbanistica e la disposizione regolare degli edifici evidenti nei due grandi centri urbani di Mohenjo-Daro e Harappa lasciano ipotizzare che le città della valle dell’Indo fossero rette da un’autorità centralizzata che si faceva carico, perlomeno, della pianificazione architettonica e della manutenzione di infrastrutture quali acquedotti e fognature. È probabile che tale classe governante, le cui peculiarità sono per noi ignote, regolamentasse anche la possibilità di risiedere in città, dove non poteva stabilirsi chiunque; gli agricoltori che ne garantivano il sostentamento vivevano in piccoli villaggi disseminati nel territorio circostante.

Nella parte più esterna dell’agglomerato urbano, in genere vicino al fiume, sorgevano poi ampi magazzini e granai, eretti in file ordinate, suddivisi in vari ambienti e dotati di un buon sistema di ventilazione; qui venivano accumulate le provviste di viveri, i prodotti destinati al commercio e quelli importati da altre città dell’Indo e dalla terra di Sumer.

Mesopotamia, mercato dell’Indo

Gli avamposti della civiltà di Harappa lungo le coste del Makran (presso il confine attuale tra Iran e Pakistan) attestano l’esistenza di una fitta rete di contatti e scambi commerciali con la Mesopotamia, attiva specialmente ai tempi di Sargon di Akkad (2334-2279 a.C.). Inoltre, grazie ai sigilli provenienti dalla valle dell’Indo ritrovati negli scavi di Ur, nell’odierno Iraq meridionale, sappiamo che i mercanti di Harappa e Mohenjo-Daro commerciavano con i loro colleghi sumeri tra il 2300 e il 2000 a.C.

Alcuni commercianti del nord attendono il loro turno per mostrare le preziose pietre a un mercante di Harappa

Alcuni commercianti del nord attendono il loro turno per mostrare le preziose pietre a un mercante di Harappa

Foto: Christopher Kle / NGS

Dall’Indo venivano esportate le eccedenze di cereali, soprattutto frumento, e forse tessuti di cotone, ma la gran parte delle antiche merci indiane era rappresentata da piccoli oggetti di lusso, quali perline lavorate di agata e corniola, ornamenti ricavati da pietre dure o conchiglie, pettini di avorio e probabilmente scimmie e pregiate piume di pavone, gli stessi beni che, oltre mille anni dopo, il re d’Israele Salomone avrebbe importato dall’India, secondo il racconto della Bibbia. Del resto, preziosi manufatti in legno e altri prodotti di lusso giungevano nella terra di Sumer sia dall’India meridionale (forse persino dalla regione costiera del Malabar) sia dall’area settentrionale del Paese.

Uno dei grandi misteri che ancora avvolge questa civiltà riguarda la sua forma di governo. La pianificazione urbanistica e la presenza di una certa forma di standardizzazione edilizia sembrerebbe presupporre l’esistenza di un forte potere centrale. Eppure, l’unico elemento che avvalla l’ipotesi di un assetto organizzativo simile a quello mesopotamico, al cui vertice si trovava un re-sacerdote, è una statuetta in steatite che rappresenta una figura maschile barbuta dal piglio regale, con ornamenti sul capo e sulle braccia. Infatti, in nessuna delle città dell’Indo è stato possibile riconoscere qualcosa di paragonabile ai templi e ai palazzi della Mesopotamia e nei cimiteri di Harappa non vi sono tracce di tombe regali distinguibili da quelle dei comuni cittadini.

Un altro enigma è rappresentato dalla religione praticata dal popolo della valle dell’Indo, di cui non si sa quasi nulla. L’abbondanza di statuette di terracotta raffiguranti il toro rampante, lo zebù, e simboli fallici, oltre a personaggi femminili dotati di attributi sessuali pronunciati, testimonia l’esistenza di un culto della fertilità, associato da un lato al vigore maschile, dall’altro alla figura di una dea-madre.

Sigillo raffigurante un dio ittifallico circondato di animali, scoperto a Mohenjo-Daro, secondo alcuni prototipo del dio indù Shiva

Sigillo raffigurante un dio ittifallico circondato di animali, scoperto a Mohenjo-Daro, secondo alcuni prototipo del dio indù Shiva

Foto: Angelo Hornak / Corbis / Cordon Press

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L’antenato di Shiva?

Uno dei sigilli più noti rinvenuti a Mohenjo-Daro reca l’immagine di una figura maschile – forse una divinità a tre facce – seduta nella posizione yoga del “fiore di loto” e con indosso un copricapo ornato con corna di bufalo d’acqua, adorata da un gruppo di animali, tra cui una tigre, un elefante, un rinoceronte e un bufalo. È chiaramente un “Signore delle bestie”, con il potere di ammansire gli animali selvaggi. Alcuni vi riconoscono perciò gli attributi di un proto-Shiva e ipotizzano che elementi propri della religione della civiltà dell’Indo, quali l’ascetismo e le pratiche yoga, siano filtrati in seguito nell’induismo introdotto dagli ari (o indoeuropei), che invasero il subcontinente indiano intorno al 1500 a.C. Si tratta in ogni caso di una questione difficile da chiarire, poiché la scrittura dell’Indo, conservatasi soprattutto sui piccoli sigilli tipici di questa cultura, è tuttora indecifrata.

L’improvvisa fine della civiltà della valle dell’Indo non fu determinata da una guerra ma più verosimilmente da una serie di catastrofi naturali. Intorno al 1700 a.C. il cambiamento delle condizioni climatiche ridusse la portata dei monsoni e diede luogo a una diminuzione delle precipitazioni, che comportò a sua volta la rovina dei raccolti; in più, le disastrose inondazioni causate da sommovimenti tettonici lungo il corso dell’Indo portarono al repentino abbandono di Mohenjo-Daro.

Tutto ciò si aggiungeva ai danni arrecati dall’intensa deforestazione attuata per fini agricoli: la drastica riduzione delle risorse e dunque del commercio che sosteneva l’economia delle grandi città ne provocò il graduale spopolamento già a partire dal 2000 a.C. Quando le popolazioni arie provenienti dall’Iran o dall’Asia centrale penetrarono nel subcontinente indiano attraverso l’Hindukush, della cultura della valle dell’Indo restava poco o niente.

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Per saperne di più

Storia dell’India. Wolpert Stanley, Bompiani, Milano, 2022

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