Cesare contro Farnace

Nel 47 a.C., Giulio Cesare dovette lasciare l’Egitto per scontrarsi con il re del Ponto, che si era impossessato del territorio di due regni vicini. In un’operazione lampo Cesare vinse Farnace II e consegnò il suo regno a un sovrano alleato, Mitridate di Pergamo

La guerra lampo non l’hanno inventata i nazisti. Almeno due millenni prima c’è stato un condottiero che si è dimostrato perfino più rapido delle armate corazzate di Guderian. Chi? Neanche a dirlo, Gaio Giulio Cesare, l’uomo di cui un cronista, Cassio Dione, scriveva che «in tutte le occasioni egli si assicurava un grandissimo vantaggio con la rapidità delle sue mosse e marciando quando nessuno se lo aspettava. Se uno volesse sapere perché mai egli superava tanto i generali del suo tempo nell’arte della guerra, non troverebbe, facendo i dovuti paragoni, nessun motivo più forte di questo».

Nella statua di Nicolas Coustou, Giulio Cesare è ritratto con una corona di alloro sul capo. XVII secolo. Musée du Louvre, Parigi

Nella statua di Nicolas Coustou, Giulio Cesare è ritratto con una corona di alloro sul capo. XVII secolo. Musée du Louvre, Parigi

Foto: Album

Nella carriera militare di Cesare sono davvero tante le occasioni in cui questo assunto può essere dimostrato. Ma nessuna, non fosse altro che per il celebre motto che ne è scaturito, è più emblematica della campagna di Zela, che grazie alla semplicità con cui il dittatore debellò la minaccia del regno pontico è stata consegnata ai posteri come una mera formalità.

Eppure il re sconfitto, Farnace, aveva inflitto severe lezioni ai romani e le sue armate avevano messo in pesante difficoltà l’Urbe per quasi un trentennio, impegnandola in una delle più lunghe guerre che Roma abbia dovuto combattere. Lo stesso Cesare, dopo averle debellate in una battaglia di sole quattro ore, avrebbe deprecato la fortuna del suo rivale Pompeo Magno, «la cui massima gloria militare era venuta da una così imbelle categoria di nemici». La faceva facile, lui. Eppure i pontici erano il popolo più all’avanguardia, all’epoca, in fatto di truppe corazzate: provvisti di falangi e carri falcati, avevano una cultura bellica molto più evoluta dei galli contro cui Cesare aveva combattuto per quasi un decennio ed erano più coesi degli egizi che aveva affrontato poco prima per aiutare la sua amata Cleopatra.

Farnace II del Ponto non è il più noto tra gli avversari di Cesare: Vercingetorige e Pompeo Magno si sono conquistati una gloria ben più imperitura di lui; ma era sufficientemente privo di scrupoli per ritagliarsi un posto importante nella storia, se solo non avesse avuto la sfortuna d’imbattersi subito in uno dei più grandi condottieri mai esistiti.

Incisione di Farnace II, re del Ponto

Incisione di Farnace II, re del Ponto

Foto: Alamy / Aci

Un re avido di territori

Farnace era uno dei tanti figli di Mitridate, ma era anche il suo preferito. Ciononostante, cospirò contro il padre per soffiargli il trono e, sebbene fosse stato perdonato, riprese a brigare contro il re fino a indurlo al suicidio. A quel punto però il Ponto, che prima delle guerre coi romani era un regno potente quasi quanto quello partico, poco più a est, si era ridotto a un territorio modesto, che l’Urbe, forse un po’ improvvidamente, assegnò proprio a lui in qualità di re cliente, costituendo altri potentati satelliti col resto dei possedimenti un tempo sotto la sovranità di Mitridate.

Nella successiva guerra civile tra Cesare e Pompeo quasi tutti i sovrani orientali si erano schierati col secondo, che si era procurato vaste clientele in Asia all’epoca delle sue conquiste a est. Solo Farnace si era tenuto fuori dalla contesa, approfittando dell’assenza dei re di Cappadocia e Galazia, Ariobarzane e Deiotaro, accorsi in Macedonia a sostenere Pompeo, per impadronirsi dei loro territori. A fine scontro però i due si erano accordati col vincitore, facendosi garantire da Cesare l’incolumità dei loro regni, che recuperarono grazie alla presenza di tre legioni al comando del legato Domizio Calvino.

Cesare in Egitto

Farnace dovette sentirsi tradito da Cesare: abbandonò la Cappadocia ma si tenne l’Armenia Minore di Deiotaro, mentre il dittatore era impegnato a creare un protettorato romano in Egitto a favore di Cleopatra. Cesare di certo ritenne che Domizio Calvino fosse sufficiente per fronteggiare la minaccia di Farnace: piuttosto strano, per un condottiero che ambiva a emulare Alessandro Magno e che si trovava di fronte alla prospettiva di collezionare una vittoria proprio contro un regno erede di quelli ellenistici di matrice macedone. In ogni caso, Domizio non era Cesare e si fece sconfiggere in battaglia campale a Nicopoli.

Le tombe illuminate dei sovrani pontici scavate nella roccia ad Amaseia (l’attuale Amasya, sulla costa turca del mar Nero), antica capitale del regno del Ponto

Le tombe illuminate dei sovrani pontici scavate nella roccia ad Amaseia (l’attuale Amasya, sulla costa turca del mar Nero), antica capitale del regno del Ponto

Foto: Izzet Keribar / Getty Images

Da quel momento Farnace, informato delle difficoltà di Cesare in Egitto, dove il dittatore si ritrovò perfino sotto assedio ad Alessandria, si lanciò nella sistematica riconquista dei territori che erano stati del padre; ne approfittò anche per dare libero sfogo all’odio che aveva accumulato nei confronti dei romani, sottoponendo chiunque facesse prigioniero a ogni genere di tortura e perfino all’evirazione. Cesare, inspiegabilmente, non reagì neppure quando uscì vincitore dalla guerra civile tra Cleopatra e il fratello Tolomeo. Eppure, i regni clienti aggrediti erano teoricamente tutelati dalla protezione romana ben più del regno egizio, nominalmente ancora indipendente. Inoltre, lì Roma aveva forti interessi commerciali e la presenza di cittadini (banchieri, armatori, mercanti) era molto numerosa. D’altro canto, l’Egitto era un regno debole e l’Urbe avrebbe potuto conquistarlo in qualsiasi momento, a maggior ragione lasciando prima che i due fratelli si logorassero a vicenda. Se il dittatore non abbandonò subito lo scacchiere egiziano e si mosse molto tempo dopo Nicopoli, fu probabilmente perché teneva alla regina ben oltre le ragioni di prestigio, che gli imponevano di non lasciare incompiuto ciò che aveva iniziato. Era così affezionato a lei che indugiò in sua compagnia abbandonandosi a una lunga crociera sul Nilo, durante la quale concepì il loro sfortunato figlio Cesarione e si riprese dalle fatiche delle guerre civili, che aveva combattuto senza soluzione di continuità in Italia, in Spagna, in Gallia, in Epiro, in Macedonia e nello stesso Egitto.

Oltre tre mesi dopo che il suo subalterno era stato sconfitto, nel marzo del 47 a.C., Cesare partì dall’Egitto con la VI legione. Raggiunse la Giudea e di lì si spostò ad Antiochia, poi a Tarso e infine a Eusebeia, ai confini col Ponto, dove raccolse le legioni del suo legato, la XXXVI e la XXXVII, oltre alle tre del popolo dei galati che gli portò in dote Deiotaro. A quel punto Farnace si spaventò e si mostrò disposto a trattare; Cesare gli lasciò credere di aver fretta di tornare a Roma e di essere quindi pronto ad ampie concessioni, ma intanto continuò a marciare contro di lui. Si fermò solo a cinque miglia dal campo del sovrano, che si era insediato su una collina collegata mediante un lungo ponte alla città di Zela, l’attuale Zile in Turchia. Nottetempo s’impossessò di un’altura a meno di un miglio dal nemico e si diede a fortificarla.

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Una vittoria lampo

Era il 2 agosto del 47 a.C. Da soli cinque giorni Cesare aveva dato formalmente avvio alla campagna, irrompendo in territorio nemico. I suoi legionari avevano appena iniziato a erigere il vallum – la barriera costituita da terrapieno, palizzata e fossato che caratterizzava tutti i campi romani provvisori – quando Farnace decise di sorprendere l’avversario con un attacco improvviso. I romani, che avevano in mano zappe, pale e picconi, videro i temibili carri falcati risalire il pendio e subito dopo la fanteria pontica avanzare in assetto da falange. Fortunatamente per loro, godevano del vantaggio della posizione e la lentezza con cui gli avversari risalivano la collina gli diede il tempo di schierarsi.

Sesterzio in bronzo con l’iscrizione 'Veni, vidi, vici' sul rovescio. Sammlung Archiv für Kunst und Geschichte

Sesterzio in bronzo con l’iscrizione 'Veni, vidi, vici' sul rovescio. Sammlung Archiv für Kunst und Geschichte

Foto: Album

Cesare stentò a credere che il re si lanciasse in un’impresa tanto scriteriata e per un po’ ritenne che si trattasse solo di un’esibizione di forza. Quando i primi legionari che aveva messo di guardia furono travolti dalle quadrighe si rese conto che si faceva sul serio e diede ordine ai soldati di scagliare i loro micidiali pila, i giavellotti pesanti di metallo e legno, che arrestarono la corsa delle quadrighe e scompaginarono i ranghi nemici. Subito dopo mandò al contrattacco la cavalleria leggera che arrestò definitivamente la lenta avanzata dei pontici, prima dell’attacco letale della VI legione. La mischia durò ben poco: troppa era la differenza di armamento, disciplina e coesione tra le truppe romane e quelle asiatiche. I pontici si diedero presto alla fuga, lasciando il loro campo alla mercé dei legionari. Vistosi privato dell’esercito, Farnace si svincolò a sua volta, solo per finire trucidato da uno dei suoi governatori sul Bosforo poco tempo dopo. Il suo regno fu affidato a Mitridate di Pergamo, che aveva aiutato Cesare a risolvere la “grana” egizia prima che il dittatore ripartisse per l’Italia.

Ma Cesare avrebbe dovuto attendere ancora a lungo prima di celebrare il trionfo, che associò alle altre sue vittorie, precedenti e successive, testimoniandolo con la ben nota iscrizione, «Veni, vidi, vici» (Sono arrivato, ho visto e ho vinto), che faceva mostra di sé su uno dei cartelloni esibiti nel corteo.

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