Per i suoi contemporanei, il naufragio di una nave è un tragico incidente. Per i ricercatori, invece, costituisce una fonte di dati dall’incalcolabile valore scientifico, una vera e propria miniera di informazioni. Il relitto di un’imbarcazione è l’immagine congelata di un determinato momento storico: rivela i segreti non solo del carico trasportato, ma anche della vita dell’equipaggio.
In epoca romana le acque del Mediterraneo erano una delle principali vie per il trasporto di merci e persone. Bassorilievo di un sarcofago. I secolo a.C. Museo della civiltà romana
Foto: Mondadori / Album
Questi peculiari siti archeologici nascosti sui fondali marini hanno delle caratteristiche uniche che li distinguono da quelli terrestri. Se le condizioni fisiche al momento dell’affondamento sono adeguate, i resti possono conservarsi persino per millenni. Il legno della nave, le ceste o le calzature di cuoio dei marinai hanno una resistenza eccezionale che ne permette il successivo studio archeologico. Se a questo si aggiunge il fatto che l’isolamento subacqueo evita le alterazioni, il risultato è l’istantanea di un’epoca.
Il relitto assume particolare rilevanza se si considera che, fin dalla preistoria, gli esseri umani si sono dedicati a un’intensa attività esplorativa. Il trasporto marittimo, lacustre e fluviale era il modo più veloce, sicuro ed economico di trasferire merci e persone. Non è quindi difficile immaginare che già nei tempi remoti ci fosse un frenetico viavai di imbarcazioni che, in alcune occasioni, si avventuravano in viaggi sconosciuti e, in altre, seguivano rotte commerciali già battute.
Per gli archeologi il relitto costituisce il tassello mancante per la comprensione del commercio antico. Gli scavi permettono di riportare alla luce un’infinità di resti di oggetti costruiti in località diverse da quella del ritrovamento. Si tratta quindi certamente di prodotti importati, ma come sono arrivati dal luogo di fabbricazione alla loro destinazione finale? Il relitto offre le risposte, è l’anello di congiunzione tra due realtà storiche e commerciali concrete. L’archeologia subacquea è una scienza relativamente recente. Solo negli ultimi sessant’anni gli studiosi hanno sviluppato una metodologia per esplorare i fondali e recuperare i resti senza bisogno di intermediari.
I precursori
In precedenza le operazioni erano effettuate da sommozzatori che non avevano una formazione archeologica adeguata. Ciò non ha comunque impedito una serie di ritrovamenti significativi. Ad esempio nel 1895 Eliseo Borghi organizzò una spedizione nel lago di Nemi (sui Colli Albani) allo scopo di “ripescare” i reperti di alcune navi imperiali risalenti all’età di Caligola. Diversi decenni prima Annesio Fusconi aveva tentato, invano, la stessa impresa con una campana batiscopica.
Pochi anni dopo l’impresa di Borghi, nel 1901, ebbe luogo una delle missioni subacquee più celebri della storia, che culminò con il ritrovamento dei resti di una nave affondata di fronte all’isola greca di Anticitera. In entrambi i casi non si può parlare propriamente di interventi archeologici, in quanto non fu seguita nessuna metodologia precisa e ci si avvalse della collaborazione di pescatori di spugne di mare.
Fu solo nel 1950 che Nino Lamboglia, archeologo fondatore dell’Istituto internazionale di studi liguri, inaugurò una nuova prospettiva proponendo di considerare il relitto quale un sistema chiuso in cui l’insieme dei manufatti costituisce un contesto impermeabile ai fattori esterni, come una specie di capsula del tempo.
Le potenzialità di questo approccio si rivelarono nel recupero del relitto romano di Albenga. Si trattava dei resti di un’immensa nave mercantile che trasportava migliaia di ànfore. Lo scopo di Lamboglia era definire la cronologia precisa di una specifica tipologia di ànfore vinarie. Per ottimizzare l’operazione di recupero, si servì del dragamine Daino. Questa tecnica gli permise di centrare il suo obiettivo ma causò anche la perdita di molti dati scientifici, come sarebbe emerso in seguito. Se l’approccio era corretto, la metodologia era ancora da rivedere.
Immersioni nella storia
Una decina di anni dopo l’esperimento di Lamboglia, una squadra di giovani archeologi – formata tra gli altri da George Bass, Ann Bass, Peter Throckmorton, Honor Frost e Claude Duthuit – comprese che era possibile applicare con successo la metodologia archeologica agli interventi subacquei. La formula era semplice: formare gli archeologi in tecniche di immersione per renderli in grado di studiare direttamente i siti, senza bisogno di intermediari.
Il primo tentativo in questo senso fu fatto a capo Gelidonya, lungo le coste turche, con i resti di un’imbarcazione cananea (del Canaan, approssimativamente l’attuale Palestina) del 1200 a.C. Questa operazione era destinata a rappresentare l’inizio della moderna archeologia subacquea e costituisce ancor oggi un modello di intervento.
George Bass sapeva che gli scavi archeologici sono un modo aggressivo di ricavare informazioni storiche, perché il processo stesso implica lo smantellamento del sito in quanto tale. L’irreversibilità degli scavi spinse la squadra di Gelidonya a registrare meticolosamente ogni elemento nella sua posizione subacquea originaria e, soprattutto, a spiegarne il rapporto con gli altri materiali presenti e con il contesto archeologico. Gli oggetti venivano estratti solo dopo che si era compresa la ragione per la quale si trovavano in un determinato luogo. Si trattava di un processo lento, ma che permetteva di massimizzare le informazioni ricavate dal sito.
Vista panoramica di capo Gelidonya, sulla costa turca. Qui nel 1200 a.C. circa affondò una nave cananea, che fu recuperata nel 1960 da una squadra di archeologi subacquei guidati da George Bass
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La squadra di George Bass dimostrò così che i fondali marini ospitavano un’enorme massa di dati che aspettava di essere studiata; ma ci sarebbe voluto ancora del tempo perché l’archeologia subacquea ottenesse il riconoscimento e il rispetto della comunità accademica. Sette anni più tardi Michael Katzev e sua moglie Susan Womer Katzev – due archeologi con un’ampia esperienza subacquea – seguirono le orme e i consigli della squadra di George Bass, basandosi sul suo innovativo intervento a capo Gelidonya. L’obiettivo della spedizione era indagare con la massima precisione sul Kyrenia, il relitto di una piccola nave mercantile greca del IV secolo a.C. affondata al largo delle coste cipriote. In assenza di un sostegno accademico o istituzionale, la campagna fu finanziata con il contributo degli stessi ricercatori e di diversi mecenati. Gli archeologi registrarono minuziosamente ogni elemento del carico, dagli effetti personali dell’equipaggio alla struttura della nave, come se si trattasse di una scena del crimine. I Katzev trascorsero lunghe giornate ad analizzare i dati e gli elementi ritrovati per ricostruire la possibile rotta della nave, la causa del suo affondamento e il numero di membri dell’equipaggio presenti a bordo. Erano i primi passi dell’archeologia subacquea, e ogni volta si sperimentavano nuove soluzioni. In quest’occasione si decise di riportare a galla i resti della nave, per metterli insieme e conservarli in superficie. L’operazione fu resa possibile dalla precisione della documentazione della struttura dell’imbarcazione e dall’eccellente lavoro di ricostruzione navale di Richard Steffy.
Archeologia del futuro
Dopo gli scavi pionieristici di capo Gelidonya, negli anni settanta si sono susseguite altre importanti pietre miliari dell’archeologia subacquea: il relitto bizantino dell’isola di Yassı Ada in Turchia, le navi romane di Madrague de Giens, nel sud della Francia, il Bou Ferrer sulle coste orientali della Spagna. La proliferazione dei siti ha portato a una specializzazione da parte degli archeologi. Se le prime generazioni di ricercatori sottomarini si erano formate negli scavi terrestri per poi apprendere le tecniche di immersione, adesso l’archeologia subacquea si studia già all’università.
Attualmente gli interventi in profondità possono giovarsi di tecnologie d’avanguardia che consentono di inventariare sempre più accuratamente i resti archeologici perché, in fin dei conti, il processo di scavo consiste ancora nella distruzione controllata del sito stesso. I GPS subacquei permettono di localizzare il relitto con maggiore precisione, il laser aiuta a registrare ogni elemento della nave con grande esattezza, le planimetrie e i disegni archeologici del sito possono essere fatti direttamente su computer o tablet subacquei, e la documentazione fotografica in due dimensioni ha ceduto il posto alle immagini 3D.
Erma di Dioniso ritrovato in una nave romana affondata a Mahdia (Tunisia). L'imbarcazione trasportava opere d'arte
Foto: UIG / Album
A questi progressi si aggiunge la possibilità di accedere a profondità più elevate grazie ai sottomarini a comando remoto (ROV) o alle immersioni con varie miscele di gas. Attualmente l’archeologia subacquea gode del meritato riconoscimento scientifico e dell’indispensabile sostegno della società.
La collaborazione dei sommozzatori sportivi, dei pescatori e del personale marittimo è essenziale per individuare nuovi relitti e proteggere quelli esistenti. Per questo motivo i progetti subacquei del XXI secolo pongono l’enfasi sull’attività di divulgazione e mirano a sviluppare esperienze pionieristiche che consentano l’accesso pubblico in situ ai resti archeologici sommersi. Gli interventi sui relitti romani di cala Cativa e capo di Vol, a Girona, dove sono state organizzate visite subacquee durante gli scavi, o il relitto di Bou Ferrer, ad Alicante, sono stati riconosciuti dall’UNESCO come esempi di buone pratiche nella gestione del patrimonio culturale subacqueo.
Un esempio di valorizzazione del patrimonio è senza dubbio quello che ha a che vedere con il relitto di Grado (Gorizia), nave romana del II secolo d. C. (poi denominata Iulia Felix) la cui presenza venne segnalata nel 1986. Il relitto fu oggetto di otto campagne di scavo che permisero il recupero dello scafo e del carico, principalmente composto da ànfore contenenti garum, la salsa a base di interiora di pesce tanto amata dai romani.