Nel XVI e XVII secolo i sacerdoti e i conquistatori avevano già descritto la vita e i costumi dei maya ma, con il passare del tempo, la storia e i capolavori architettonici di questo popolo mesoamericano erano caduti nell’oblio. Di conseguenza, l’idea che si aveva dei maya a metà del XIX secolo si basava sulle comunità indigene del sud del Messico, considerate poco progredite. Alcuni autori arrivarono addirittura ad affermare che i monumenti scoperti in quelle zone erano opera di fenici, egizi o ebrei. Furono due intrepidi avventurieri, un britannico e uno statunitense, a riportare alla luce gli straordinari edifici maya nascosti nelle profondità della selva tropicale, rivelando così al mondo una civiltà di insospettato splendore.
John Lloyd Stephens era nato a Shrewsbury, in New Jersey. Dopo aver portato a termine i suoi studi di diritto in Connecticut, si dedicò alla politica. Ma la sua vita ebbe una svolta radicale quando i medici gli raccomandarono di andare in Europa per riprendersi da una malattia respiratoria. Nel novembre del 1835, dopo aver viaggiato per tutto il Vecchio Continente, raggiunse la Francia con il proposito di imbarcarsi per gli Stati Uniti, ma non riuscì a trovare posto a causa dell’enorme flusso di emigranti.
Rassegnato, Stephens decise di rimandare il ritorno e ne approfittò per visitare il Vicino Oriente. In quella che oggi è la Giordania adottò lo pseudonimo di Abdel Hassis e diresse i suoi passi verso l’affascinante città di Petra. In Egitto visitò i principali siti archeologici grazie a un salvacondotto fornitogli dal governatore ottomano d’Egitto, Mehmet Ali. Documentò le sue esperienze in due libri: Incidents of Travel in Egypt, Arabia Petraea, and the Holy Land, del 1837, e Incidents of Travel in Greece, Turkey, Russia and Poland, del 1838, che ricevettero un’ottima accoglienza da parte del pubblico.
Durante uno scalo a Londra, Stephens conobbe quello che sarebbe stato il suo compagno di viaggio durante gli anni successivi, Frederick Catherwood, con cui entrò subito in sintonia. Nato a Londra da una famiglia benestante, Catherwood parlava correntemente arabo, italiano e greco, leggeva perfettamente l’ebraico ed era eclettico come il suo amico Stephens. Architetto, ingegnere e illustratore, aveva preso parte a numerose spedizioni archeologiche.
Avventura in America centrale
Di ritorno a New York, Stephens sfruttò i suoi contatti nel mondo politico per riuscire a ottenere la nomina ad ambasciatore statunitense nella Repubblica Federale del Centro America. La sua vera intenzione era quella di approfittare dell’incarico per studiare i resti archeologici della regione. Contattò allora il suo amico Catherwood e lo ingaggiò per 1.500 dollari in qualità di architetto, disegnatore tecnico, topografo e illustratore. La spedizione fu finanziata con i proventi ottenuti dalla prima opera di Stephens, nel frattempo diventata un bestseller. Il 3 ottobre 1839 i due salparono finalmente in direzione del Belize a bordo della Mary Ann. La loro prima meta era Copán, nell’attuale Honduras. Per accedervi, i due dovettero percorrere sentieri fangosi pressoché impraticabili, sopportando l’umidità, il calore e gli insetti, e farsi strada nella selva a colpi di machete. Quando finalmente poterono contemplare quelle piramidi, così diverse da quelle che avevano visto in Egitto, restarono a bocca aperta. Studiarono attentamente sculture, rilievi e incisioni, convincendosi che erano opera di una civiltà indigena sviluppata.
Secondo la leggenda che narrarono a Stephens a Uxmal, questa gigantesca piramide di 35 metri di altezza fu costruita in una notte da un nano, figlio di una maga, che in seguito divenne sovrano della città
Foto: Dmitri Alexander / Getty Images
Il proprietario dei terreni dov’erano situati i resti, José María Acebedo, non voleva stranieri in giro da quelle parti e così non gli facilitò le cose. Stephen, lungi dal lasciarsi intimorire, indossò il suo pomposo abito da ambasciatore e fece sfoggio delle sue doti diplomatiche, convincendo Acebedo a vendergli la città per «l’incredibile somma di cinquanta dollari». Così, il 17 novembre 1839 ebbero inizio gli scavi archeologici di Copán. Stephens diresse i lavori di sgombero mentre Catherwood, armato di un teodolite, tracciò la pianta della città e fece disegni di straordinaria precisione grazie all’uso di una camera lucida, un dispositivo ottico utilizzato dagli artisti come ausilio per il disegno.
Sfida alle autorità
Mentre Stephens si recava in Guatemala per ottenere i permessi necessari per iniziare l’esplorazione di Copán, Catherwood si avventurò nei dintorni del sito maya. Durante una delle sue peregrinazioni scoprì Quiriguás, 50 chilometri più a nord, dove trovò un’impressionante collezione di lapidi maya.
In seguito i due ricercatori si diressero verso Palenque attraversando enclavi naturali di grande bellezza, come il lago Atitlán, in Guatemala, per poi giungere finalmente a Comitán, al confine con lo stato del Chiapas. Lì vennero a sapere che il presidente del Messico, il generale López de Santa Anna, aveva proibito le visite alla città. Ciononostante, proseguirono fino al villaggio di Palenque, nei pressi delle rovine. Al termine di un viaggio durissimo, dopo aver attraversato il fiume che divide il sito in due settori, zuppi d’acqua e divorati dalle zanzare, i due videro comparire tra le cime degli alberi le splendide sommità degli edifici di Palenque, capolavori dell’architettura maya. Nonostante il divieto, decisero di accamparsi lì, insediandosi in quello che oggi conosciamo come il Palazzo. La vegetazione aveva completamente ricoperto gli edifici. I due ne ripulirono alcuni tra i più interessanti, come lo stesso Palazzo, di cui Catherwood immortalò i grandi bassorilievi in pietra della corte principale. Nei suoi disegni l’inglese illustrò anche il Tempio delle Iscrizioni, al cui interno si celava la tomba di Pakal il Grande, signore di Palenque – che sarebbe stata scoperta solo nel 1952 dall’archeologo Alberto Ruz –, il Tempio della Croce Fogliata e il Tempio del Sole, con le sue intricate incisioni.
Era la prima volta che questi edifici venivano studiati da un punto di vista scientifico. Dal canto suo, Stephens individuò una serie di elementi comuni nelle diverse città maya, affermando che molti dei rilievi trovati contenevano complessi geroglifici che raccontavano una storia: questa fu senza dubbio un’intuizione geniale se consideriamo che la scrittura maya è stata decifrata quasi completamente solo pochi decenni fa.
Il Palazzo delle Maschere di Kabah è un magnifico esempio di architettura in stile puuc. Le maschere rappresentano Chac, il dio maya della pioggia
Foto: Bertrand Gardel / Gtres
Stephens cercò di comprare Palenque, così come aveva fatto con Copán, perché era intenzionato a trasportare i monumenti a New York pietra per pietra per creare un grande museo dedicato alla cultura maya. Per Palenque offrì 1.500 dollari, ma le leggi messicane non permettevano agli stranieri di possedere terra a meno che non fossero sposati con messicane. Le solide convinzioni di Stephens riguardo al celibato mandarono a monte l’acquisto. Così, dopo quasi due mesi di lavoro, il primo giugno 1840 l’accampamento fu smantellato.
I due avventurieri si misero quindi in marcia verso il Golfo del Messico, decisi a esplorare l’antica città di Uxmal, che localizzarono grazie alla rudimentale mappa che lo stesso proprietario del terreno, il latifondista yucateco Simón Peón, aveva dato a Stephens quando questi si trovava a New York. Ma quando arrivarono a Uxmal, il 24 giugno 1840, Catherwood aveva la malaria ed era fortemente debilitato. I due documentarono rapidamente il loro soggiorno nel sito e quindi fecero rientro a New York.
Un successo letterario
Nonostante le difficoltà, il viaggio era stato un successo. Stephens e Catherwood avevano riscoperto le antiche città maya di Copán, Kabah, Mérida, Palenque, Quiriguá, Utatlán, Sayil, Toniná, Topoxte e Uxmal. Inoltre, anche se non avevano visitato Tikal, nella guatemalteca foresta del Petén, avevano osservato le sommità delle piramidi spuntare dalla boscaglia, registrandone la posizione approssimativa. A New York, Stephens ebbe finalmente stempo di ordinare il materiale raccolto e poté pubblicare un nuovo libro, Incidents of Travel in Central America, Chiapas and Yucatan, che superò il successo ottenuto dai precedenti. Con uno stile vivace e fresco l’opera narrava le peripezie di un viaggio difficile ma affascinante, in un contesto magico, popolato di città sconosciute e misteriose. Stephens e Catherwood, inquieti, decisero immediatamente di intraprendere un secondo viaggio in Yucatán, che prepararono nei dettagli. Partirono il 9 ottobre 1841 ed esplorarono le città di Aké, Chichén Itzá, Dzibilnocac, Itzamal, Labná, Mayapán, Tulum e di nuovo Uxmal. Questa volta però li accompagnava il naturalista Samuel Cabot, che studiò la fauna locale. Il risultato fu il libro Incidents of Travel in Yucatan, che conteneva 120 incisioni di Frederick Catherwood e fu pubblicato a New York nel 1843.
Separati dalla morte
Nel 1847 Stephens fu nominato vicepresidente e direttore della Ocean Steam Navigating Company. Nel 1850, mentre era in carica, gli fu offerto di partecipare alla costruzione della Panama Railway, la prima ferrovia transcontinentale. Stephens chiamò Catherwood perché lo sostituisse mentre era a Panamá. Fu l’ultima volta che si videro. Stephens morì a New York il 13 ottobre 1852. La sua morte fu circondata da un’aura di leggenda. Si disse che era morto sdraiato sotto un grande ceiba (l’albero sacro dei maya) a Panamá. Sembra che in realtà quando lo trovarono fosse solo svenuto, e che fu trasportato a New York, dove più tardi morì. Nel 1947 sulla sua lapide fu posta una targa commemorativa con un glifo maya in cui veniva riconosciuto come pioniere degli studi su questa civiltà.
La morte di Catherwood fu un evento più tragico: morì nel naufragio dell’Arctic, la nave su cui viaggiava da Liverpool a New York il 27 settembre 1854 e in cui perirono altri 385 passeggeri. A differenza della morte di Stephens, la scomparsa del disegnatore che aveva immortalato le rovine delle città maya ritrovate sotto il manto della selva passò praticamente inosservata agli occhi dell’opinione pubblica dell’epoca.