Roma fu indubbiamente una civiltà dell’acqua. La tecnologia che sviluppò per la captazione, la distribuzione e il consumo trova paragoni soltanto nel nostro mondo contemporaneo. Sicuramente nelle città dell’antica Grecia si costruirono sistemi di tunnel, gallerie e cisterne, talvolta di dimensioni considerevoli, ma ben lontani dagli impressionanti acquedotti che i romani, grazie alle loro spiccate doti per l’ingegneria e l’architettura, disseminarono in tutto l’impero. Furono tra i massimi esempi di grandi opere pubbliche, che i romani considerarono sempre prioritarie, ma non soltanto: con la loro mole imponente e il messaggio di dominio dell’uomo sulla natura che trasmettevano, erano anche i simboli della progredita civiltà di Roma, oltre che veicoli di propaganda per il suo potere e per il suo imperatore.

Con quasi 50 m, il Pont-du-Gard che attraversa il fiume Gardon in Francia è uno dei più alti giunti fino a noi
Foto: Luigi Vaccarella / Fototeca 9x12
Non tutte le città romane erano dotate di acquedotti, poiché per alcune il rifornimento idrico era assicurato da pozzi e cisterne pubbliche e private scavate sotto le case, come hanno dimostrato gli studi a Cesarea (oggi Cherchell, in Algeria) o a Pompei. Pare che sia questo il caso anche di Emporiae (Ampurias in Spagna), dove per il momento non sono stati localizzati acquedotti. Alcune cisterne potevano avere dimensioni colossali, come la Cisterna basilica, in turco Yerebatan Sarayi, di Costantinopoli, o la piscina mirabilis di Miseno, frazione di Bacoli, in provincia di Napoli. Quest’ultima era sotterranea e aveva una capacità di 12.600 metri cubi; il soffitto con volte a botte è retto da quarantotto pilastri distribuiti in quattro file e collegati da archi trasversali.
Alcune città, tuttavia, avevano bisogno di una quantità d’acqua maggiore di quella che potevano assicurare le cisterne, non soltanto per rifornire una popolazione numerosa, che nel caso di Roma arrivava a un milione di abitanti, ma anche per alimentare le fontane pubbliche e ornamentali, le terme e gli spettacoli. Gli acquedotti furono quindi creati per soddisfare tutte queste necessità.
Solitamente, la parola acquedotto fa subito pensare alle impressionanti e imponenti costruzioni di Roma o di Gard in Francia. Gli archi monumentali, però, erano soltanto una parte del sistema di rifornimento, il cui obiettivo era captare acqua da sorgenti e bacini che potevano trovarsi anche a cinquanta chilometri di distanza dalla città. Lungo questo tragitto si costruivano opere di captazione, bacini di accumulazione, torri di distribuzione (castella aquarum) e, logicamente, il canale attraverso il quale l’acqua scorreva sfruttando la lieve pendenza (mediamente del 2%) che gli ingegneri romani facevano in modo di mantenere sempre identica dalla fonte alla destinazione. Nei punti in cui si presentava un forte dislivello del terreno – una valle o un avvallamento – si costruivano le arcate monumentali che siamo soliti associare all’immagine dell’acquedotto, ma per la maggior parte del percorso l’acqua scorreva in canali interrati o allo stesso livello del suolo. Nel caso di Roma è stato calcolato che, dei 507 chilometri totali dei suoi acquedotti, 434 erano sotterranei, quindici superficiali e solo cinquantanove (il 12%) scorrevano attraverso gli archi.

L'acquedotto dei miracoli, costruito nel I secolo d.C., riforniva d’acqua la città di Augusta Emerita (Mérida), capitale della provincia romana della Lusitania
Foto: Juergen Richter / Gtres
Rifornire l’Urbe
Roma arrivò ad avere dodici acquedotti, il più antico dei quali era l’Aqua Appia, costruito da Appio Claudio Cieco, inaugurato nel 312 a.C. e con un percorso di oltre 1,6 chilometri. Altri tre furono costruiti nel III e nel II secolo a.C.: Aqua Anio Vetus, Aqua Marcia e Aqua Tepula. L’impulso definitivo fu dato dall’imperatore Augusto e dal genero Marco Vipsanio Agrippa, che fecero restaurare gli acquedotti più vecchi e ne costruirono di nuovi, alcuni dei quali, come l’Aqua Virgo, sono rimasti in uso ininterrottamente e sono ancora oggi in funzione.
Gli imperatori Claudio e Traiano diedero i loro nomi all’Aqua Claudia e all’Aqua Traiana, quest’ultimo con un percorso di quasi sessanta chilometri. L’ultimo degli acquedotti di Roma fu l’Aqua Alexandrina, lungo ventidue chilometri, opera di Alessandro Severo nel 226 d.C. Secondo i calcoli, Roma arrivò ad avere a disposizione un totale di un milione di metri cubi di acqua al giorno per soddisfare la necessità di una popolazione in costante aumento e per alimentare le undici grandi terme, i 900 bagni pubblici e le 1400 fontane monumentali e piscine private.
Gli acquedotti rifornivano le 900 terme e le 1400 fontane pubbliche di Roma
Per la gestione delle acque reflue, le città potevano contare su una rete fognaria completa. A Roma la Cloaca massima, che sfociava nel Tevere, era motivo di ammirazione generale, come ci informa Plinio il Vecchio nella sua enciclopedica Storia naturale. Fu il buono stato della rete di cloache e acquedotti, oltre alla sana abitudine all’igiene e al bagno, a tenere lontane epidemie terribili come quelle che colpirono le città nell’epoca medioevale.

L’acquedotto di Segovia risale alla fine del I secolo d.C. Nel tratto che attraversa la città il doppio ordine di archi raggiunge un'altezza di 28 metri
Foto: Juan Carlos Muñoz / Fototeca 9X12
La costruzione di un acquedotto, dalla captazione al punto di distribuzione finale, era un’impresa costosissima e una spesa che le città che ne vantavano uno dovevano per forza sostenere. Per quanto si sa, il finanziamento delle opere era al contempo pubblico e privato. In alcune occasioni a provvedere alle spese erano personaggi importanti della politica, e in generale le opere venivano completate entro il loro mandato. Vipsanio Agrippa, per esempio, genero e generale di Augusto, come edile e come console fece costruire a Roma due acquedotti, l’Aqua Iulia e l’Aqua Virgo, utilizzando, per la costruizone delle tubature in piombo, le risorse minerarie che controllava. A partire dall’epoca di Augusto, gli imperatori furono tra i sovvenzionatori di queste onerose infrastrutture. Il lavoro, però, era iniziato dai governi municipali, che delegavano ai magistrati il compito della costruzione, normalmente con denaro pubblico.
Un’impresa titanica
Vi sono pochi testimoni diretti del processo di costruzione di un acquedotto, e per questo è preziosa l’informazione contenuta nell’iscrizione su un cippo rinvenuto a Saldae (oggi Béjaïa, in Algeria). Si tratta del monumento funerario di Nonio Dato, che ci narra in prima persona le difficoltà che questo personaggio incontrò nell’intraprendere l’opera. Il lungo testo ci informa che ai tempi dell'imperatore Adriano gli abitanti di questa località nordafricana avevano bisogno di aumentare la loro disponibilità d’acqua e perciò si rivolsero al procuratore della Numidia. Il processo, però, non fu rapido quanto si sperava. Nonio Dato, come ingegnere militare (librator), progettò il tracciato dell’acquedotto verso l’anno 138, ma le opere si conclusero soltanto nel 152, dopo una serie di contrattempi descritti con grande precisione. Per fare un esempio, le squadre di operai che iniziarono ad aprire le due bocche del tunnel non s'incontrarono come previsto; in un’altra occasione i banditi assalirono il cantiere e lo stesso Nonio Dato, che si occupava d'ispezionare i lavori, riuscì a cavarsela in extremis, malconcio e spogliato di tutto.
I romani furono sempre consapevoli della necessità di mantenere in ottimo stato il sistema di rifornimento idrico. Un numeroso gruppo di lavoratori specializzati o aquarii, che oggi chiameremmo idraulici, s'incaricava del buon funzionamento e della pulizia degli acquedotti. Questi tecnici erano a capo di un servizio di riparazioni e pulivano sistematicamente i canali per evitare ostruzioni e il peggioramento della qualità dell’acqua; per questo motivo, il canale in cui scorreva l’acqua era sempre coperto e s'installavano regolarmente delle vasche chiamate piscinae limariae per la decantazione, ossia la separazione dell’acqua dalle impurità.

La Cisterna basilica di Istanbul. Al termine degli acquedotti e dei rami dei canali erano collocate grandi cisterne per immagazzinare l’acqua
Foto: Stefano Brozzi / Fototeca 9x12
La furberia e l’inganno sono però una costante in tutte le epoche, e ben presto le autorità romane si resero conto che dovevano vigilare per impedire captazioni d’acqua clandestine da parte di persone che provvedevano a corrompere gli aquarii. Sesto Giulio Frontino, nel trattato sugli acquedotti di Roma che scrisse alla fine del I secolo d.C. (De aquaeductu urbis Romae), scoprì e denunciò proprio questa pratica, che definì fraus aquariorum, “truffa degli idraulici”.
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Imbrogli e sotterfugi
L’accesso privato all’acqua ha sempre avuto un prezzo. I proprietari delle case che si potevano permettere l’acqua corrente stipulavano un contratto per una certa quantità, che veniva assicurata dal maggiore o minore diametro del tubo. Anche questo dava luogo a tentativi di frode cambiando il calibro della canalizzazione. Per evitare queste truffe fu ideato il calix, una tubatura unita a una mascherina che s'incassava nella parete e aveva una decorazione particolare, per evitare falsificazioni e manipolazioni. Lo stesso tipo di oggetto si usava nei castella aquarum, i depositi dai quali l’acqua veniva distribuita alle varie zone della città.
Per un popolo come quello romano, che aveva un grande senso pratico, gli acquedotti non potevano non essere motivo di grande orgoglio e un segno identificativo. Lo afferma a chiare lettere Frontino, senatore e curator aquarum (supervisore responsabile gli acquedotti) nel suo trattato: «Una tale profusione di strutture indispensabili che trasportano una tale quantità d’acqua, comparatele, se volete, con le futili piramidi o le inutili, anche se famose, opere dei greci».
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